domenica 24 novembre 2013

Thomas Mann - Il decadentismo eroico

In Mann, più che in qualunque altro Protagonista, è possibile trovare aspetti che ci possono riguardare da vicino, che parlano di noi, se solo ampliamo un po’ il significato delle due grandi caratteristiche che lo caratterizzano. Artista e borghese.
(Thomas Mann)

Il borghese è colui che cerca il benessere materiale, la sicurezza, lo star bene. Oggi si tende a chiamarlo “ceto medio”. Non c’è più Pasolini e non ci sono più i proletari. Il borghese  ha valori morali comuni che più lo caratterizzano, lo determinano, e più lo limitano. L’amore, l’onestà, la fedeltà, la compassione. Ma anche l’individualismo, il consumismo, il proprio piccolo mondo, il piccolo piacere quotidiano, le proprie abitudini, le proprie piccole grandi paure.. E le preoccupazioni che da esso mondo derivano: la salute, la situazione economica, la felicità o almeno la serenità. E l’immagine di sé presso gli altri. E il proprio giudizio nel confronto degli altri

Chiamiamo artista non colui che fa arte. Artista è colui che non è portato via dalle cose del quotidiano, ma che cerca e si muove in una dimensione di distacco, di osservazione, di attenzione e lettura della realtà come parte di un qualcosa di più grande. E’ un poeta. E’ colui che osservando tutto ciò è pieno di domande, stupore, energia pura, fantasia ed immaginazione. E’ colui che contiene dentro di sé, nel proprio mondo interiore tutte queste sensazioni ed immagini e le elabora costantemente. Non vede una realtà solo soggettiva, ma la oggettiva dentro di sé. E non riesce a non dare a queste sensazioni la concretezza e la forza di una espressione effettuata in un linguaggio creativo.

Esiste poi l’intellettuale che, in genere, è una condizione che può portare ad essere artista, ma non necessariamente. L’intellettuale è colui la cui attività prevalente è quella del pensiero e della conoscenza. Il che non esclude che possa fare altro, anche di materiale, ma la sua attività intellettuale è pressoché costante. Anche nell’osservazione di sé stesso, degli altri, e della realtà. E con una grossa componente di studio, che usa per capire e conoscere la realtà. In genere anche di questa attività mentale, l’intellettuale, il vero intellettuale, o la trasforma in arte o in un’altra forma di espressione, non ultima il comportamento.

Potremmo arrivare a dire che il borghese è mosso dai bisogni primari e secondari, di origine esclusivamente meccanica e determinata, determinata dalla realtà (in genere materiale) che lo circonda e che lui vede e considera come unica possibile; l’artista e l’intellettuale sono coloro che, togliendosi il più possibile da questo meccanismo, sono in grado e cercano prevalentemente di vedere, studiare, conoscere e descrivere la realtà sia materiale che immateriale, in una condizione seppure non di libertà, ma di maggior neutralità, di minor peso del sentirsi individuo che vuole qualcosa di concreto per sé e combatte tutta la vita per questo.
Dal punto di vista della morale borghese, l’arte ha il difetto, se non la maledizione, di distrarre dalla vita vera, quella dei valori tradizionali. Per cui va presa con le molle e sempre a piccole dosi. Perché rischia di corrompere le anime una volta quiete, a parte i numerosi suicidi, ora meno quiete a causa della fine anche di questi valori (la morte di dio nietzschiana).

E’ chiaro che ognuno di noi dovrebbe e potrebbe fare una analisi di sé stesso e di dove si trova posizionato in relazione a questi diversi aspetti. Lavoro utile, soprattutto in relazione alla scoperta di ciò che siamo veramente da distinguersi da ciò che pensiamo di essere o vorremmo essere. Nella vita quello che sembra contare, almeno nella normalità a cui apparteniamo, è essere se stessi. E se sentirsi sé stessi risulta essere l’insieme di ciò che si fa, conviene forse non crearsi troppi inutili problemi. Lasciamo questi problemi ai Personaggi Straordinari.
(Thomas Mann con Albert Einstein)
Thomas Mann è un personaggio straordinario perché,  in lui questi elementi assumono dimensioni esasperate, mentre nelle persone normali tali elementi spesso si confondono, non avendo una forza sufficiente per combattersi eroicamente ad alti livelli. Spesso si usano i linguaggi artistici o le opere d’arte per puro diletto personale. Nel tempo libero, e come hobby o evasione.

Quando due elementi così contraddittori convivono a livelli così elevati, cosa succede all’individuo?
Che si hanno due identità? Come possono convivere? Conviene alimentare questo conflitto o trovare un compromesso? E il compromesso è sempre un abbassamento dei livelli di tensione delle due identità? Una tensione che decresce sempre più. Fino a diventare tiepida vita. Perché è difficile da reggere, sopportare, alimentare.
E come è per noi?

Thomas Mann. Borghese, artista, intellettuale.
Per Thomas Mann questo conflitto esisterà sempre e ne farà, in maniera e forma unica e irripetibile, la forza della sua arte e del suo pensiero.
Per Mann la vocazione artistica è superamento ed insieme condanna. Questo connubio produrrà per Mann sempre una condizione di malattia, che ritroviamo in tutte le opere di Mann dal Tristano al Doctor Faustus.

Voleva una vita ordinata: “una vita in sé conchiusa come un’opera d’arte”, così doveva essere. In realtà condusse una lotta disperata contro l’assedio del caos. Il caos interiore lo minacciava con la pigrizia e il perdersi nei sogni dei suoi primi anni, le inclinazioni omosessuali non vissute e il desiderio di lasciarsi andare a vivere.

Si sposerà e avrà sei figli. Lui con una mai dichiarata pubblicamente tendenza omosessuale. Perché sei figli? Per la sua parte borghese tradizionalista, basata sui valori tradizionali.

Come si sono formate in lui queste due forze e identità in maniera così prorompente? Come si gestiscono in genere queste due forze, che tutti abbiamo dentro di noi? Sopprimendole. Lui, invece,  le esalta nella sua opera (artista ed intellettuale) e nel suo comportamento (borghese).

Chissà cosa pensava veramente quest’uomo che appartiene alla grandezza della storia? 
La grandezza. Quanto uno è grande? Come si misura la grandezza? Esiste una grandezza assoluta? O sempre occorre decidere gli elementi che la compongono e il contesto in cui la si determina?
Da che estremo a che estremo arriva la grandezza di Thomas Mann? Quanto bisogna camminare per percorrere tutta la superficie della sua anima? Quanti volti, immagini, pensieri, visioni, luci, oscurità, bisogna incontrare per poter dire di averlo veramente conosciuto?

Thomas Mann, sempre accusato di ambiguità. L’ambiguità. Se guardi da un lato solo, ogni cosa è ambigua. Lui era ambiguo, perché con grande cura faceva vedere ogni volta il suo lato più opportuno e adeguato alle circostanze. Ma con sempre un grande infinito desiderio di poter incontrare due occhi che potessero cogliere ed accoglierlo per tutto ciò che veramente era. Forse come Tadzio.

(Da "Morte a Venezia")
L’immagine finale di Morte a Venezia. Lui vede Tadzio malmenato da un ragazzo più forte di lui. Tadzio poi si alza e va in mare, da solo. Poi si ferma e gli fa un cenno. E gli indica un luogo, un altrove, dove forse potersi finalmente incontrare, conoscere. E riconoscersi tra uguali. Quel ragazzo è come lui, ambiguo, forte, ma delicato, come la bellezza, malmenata dalla realtà. E allora diamoci appuntamento in un altrove, fuori da questa realtà. Gustav lo coglie, coglie lo psicagogo e forse solo a quel punto si rende definitivamente conto del miracolo. Un attimo, e tutta questa realtà scompare. Finalmente.

Thomas Mann dirà: “Per aver voglia di svolgere un'attività notevole che sorpassi la misura di ciò che è soltanto imposto, senza che l'epoca sappia dare una risposta sufficiente alla domanda "a qual fine?", occorre una solitudine e intimità morale che si trova di rado ed è di natura eroica”. 

Dice Georg Lukacs, filosofo e critico letterario ungherese: "Thomas Mann è proprio il grande storico della vita e della società borghese, come Balzac e Stendhal. Dalle sue opere i posteri apprenderanno come le tipiche figure del mondo borghese di oggi hanno vissuto e con quali problemi si sono cimentate. I problemi di Thomas Mann sono oggi, in forma mutata, i problemi di milioni di borghesi, di milioni di uomini che vivono e si evolvono sotto l’influsso della Weltanschaung borghese. E i problemi e le soluzioni che egli presenta come scrittore sono i più adatti a porre gli uomini davanti alla scelta o meglio alla convivenza difficile tra guerra e pace, tra civiltà e barbarie, tra umanità e inumanità, vita e arte, relativo e assoluto".

venerdì 1 novembre 2013

Cézanne - E' spaventosa, la vita

“E’ spaventosa, la vita”. Diceva proprio così. Ed è celebre ormai come affermazione. Qualcuno la conosce, la riconosce e la attribuisce al suo reale proprietario: Paul Cézanne.

(Paul Cézanne)
Perché, come si colloca nella sua vita una frase di questo tipo, che importanza ha, visto che Cézanne la ripete spesso alle poche persone che lo circondano?
Egli ha sempre vissuto nella sua pittura, nella ricerca costante che l’ha portato sino a dubitare della pittura stessa. Un tormento vero e proprio, la ricerca del compimento della sua opera: dipingere il mondo intero, l’intera esistenza, la vita. E nello stesso tempo l’avere coscienza che la vita, la realtà quotidiana ti porta via.


Lo sapeva, lo sentiva che la vita era piena di paure, di debolezze, che la sua vita era piena di paure e debolezze. La sua, come quella di chiunque altro, ma lui ha dipinto. Ha mostrato a chiunque abbia voglia di vedere un suo quadro, il mondo intero, l’intera esistenza.
È spaventosa, perché non ti lascia la possibilità di scegliere, perché ti lascia davanti a troppe scelte e non puoi mai sapere qual è quella giusta. Perché, la vita, ti pone davanti all’esistenza, che per una persona sola, è qualcosa di insormontabile.

E poi c’è quella virgola che separa un po’ le paure, l’esser spaventosa, e pone tutto con un certo distacco. È in quella virgola che si è collocato Cézanne, tra lo spavento e la vita: sul crinale. 
Quella virgola è come se fosse un suo dipinto sospeso tra tutti i timori dell’artista e la sua stessa vita, fatta d’arte. E infine c’è la vita, quella che tutti siamo costretti a vivere, quella che ci pone davanti alle paure e agli spaventi, davanti all’esistenza. Ed è proprio la vita ad essere l’oggetto dell’arte. L’oggetto di quello che Cézanne ha cercato di svelare alle persone.

La vita dovrebbe essere un accumularsi di strati di nuove visioni, di nuovi dettagli, di nuove sensazioni, che ogni oggetto, ogni momento della nostra vita ci sta fornendo.
L’inquietudine di Cézanne trova causa in questa costante insistenza a ricercare, a riprovare, a riguardare, ad andare dentro le cose e non essere mai sicuro di averne trovato l’essenza ultima.
Il suo assoluto bisogno di restare su quelle cose con cui ha intrecciato questa relazione così stretta, che ogni volta lo porta sempre più in fondo. E così anche la sua vita, priva di fatti, eventi, cambiamenti significativi, esprimono il suo bisogno di seguire e di decidere cosa è rilevante per lui, e non cosa è meglio e giusto e più piacevole. Ma il suo stare in questa dimensione produceva in lui la più forte sensazione possibile ad un essere umano.

La grande coscienza morale di Cézanne lo portava a cogliere la necessità di tener dentro e di abbracciare ogni volta tutto, che era fatica e infinita pazienza.
Non aveva fretta. Attendeva per ore, nascosto come una lucertola, che la luce cambiasse d'inclinazione sulle rocce della montagna, spiava i mutamenti lenti e solenni della natura. Aveva visto come l'acqua corrode le pietre nel greto del fiume, come il vento lima la roccia soffiando nei crepacci, come gli alberi si piegano e resistono nel turbine di un uragano... 
Col suo modo di dipingere voleva imitare gli stessi procedimenti della natura.

La parzialità, lo esasperava. Come lo esasperava la miseria di una cultura sempre più esclusivamente attenta agli estri sentimentali, psicologici ed emotivi del singolo.

Per lui la funzione dell’artista era di essere un punto di riferimento per la vita di tutti.

Col passare degli anni, la pittura diventava un vero atto morale. Che non si basava su intuizioni improvvise. Avanzava bensì a passi lenti e faticosi, con continui tentativi, ripetute prove.

La sua coscienza costruttiva tentava di arginare ogni volta l’erompere del sentimento naturale ed istintivo. Sentire che c’è un oltre (oltre il nostro raggiungibile) e sentire che si resta al di qua. Questa era la sua inquietudine. La mai risolta e risolvibile irrequietezza dello spirito si calmava dentro il vastissimo ansimare della natura, che lui riusciva a cogliere, in questo ascoltare senza pace.

30 anni passati di fronte alle “cose” con l’ossessione della “réalisation”. Cioè il rendere reale nella forma ciò che ci si dà in modo così frammentario, confuso, evanescente. 
La réalisation è l’esperienza che si spinge fino alla verità della cosa.
Non si può né si deve fallire di fronte al compito di rendere reale la vita inafferrabile.
E Cézanne tornava sempre al suo lavoro. Alla sua Sainte-Victoire “indescrivibile con tutte le sue migliaia di compiti” (per essere scoperta integralmente e resa reale come insieme). 
Lì si sedeva e dipingeva. Con l’ansia di far presto prima che essa svanisse. Tutto muta e si trasforma. Solo il lavoro resta. Il lavoro che deve cogliere il mutamento e l’evanescenza.

La Montaigne Sainte-Victoire è come la metafora della vita. La sua realizzazione è coglierne la verità.
(Cézanne - "Mont Sainte-Victoire vista da Les Lauves") 
L'arte di Cézanne nasce dal rapporto con la natura, meno immediato di quello degli impressionisti, meno istintivo, più meditato e profondo. Egli non può concepire la pittura al di fuori di questo rapporto; tutta la sua opera non è che un dialogo con le cose, nature morte e paesaggi, oggetti nei quali ha cercato di carpire un segreto attraverso ore di solitaria contemplazione.
Nel mondo, naturale o umano, dei quadri del Cézanne maturo non spira alcuna soggettività. Ci sono solo cose. "Cézanne - scrive Merleau-Ponty - rivela la base di natura disumana su cui l'uomo si colloca. Ecco perché i suoi personaggi sono strani e come visti da un essere di un'altra specie. Il paesaggio è senza vento, l'acqua del lago di Annecy senza movimento, gli oggetti gelati esitanti come all'origine della terra. E' un mondo senza familiarità, in cui non ci si trova bene, che vieta ogni effusione umana. Pittura disumana anche quando rappresenta un volto umano. Cézanne diceva che un viso va dipinto come un oggetto. Per questo pittore una sola emozione è possibile, il sentimento d'estraneità, e un solo lirismo: quello dell'esistenza sempre ricominciata.”
Cézanne si dedica allo studio preciso delle apparenze. Dilatava gli occhi: rinunciando alla sua interpretazione ottica del mondo, lasciava che le cose penetrassero in lui, lo invadessero. Ma il mondo che risulta poi dalla sua tela è un mondo da cui la soggettività - le abitudini visive, gli aggiustamenti percettivi, e la tradizione pittorica europea - pare esclusa, o, come direbbe Merleau-Ponty, messa tra parentesi. Egli fa epoché della storia soggettiva della visione.

Racconta Bernard, suo allievo e amico: “Un giorno, un pomeriggio di mistral, in cui venivamo a fargli una sorpresa con il mio amico Xavier de Magallon, credendo che non lavorasse, lo trovammo che batteva i piedi sulla roccia, coi pugni stretti, e che piangeva come un bambino davanti alla sua tela squarciata, portata via dal colpo di vento. E appena ci mettemmo a correre per recuperarla, spinta nei cespugli della cava: “Lasciatela lì, lasciatela, gridò… Stavo per esprimermi, questa volta… era la buona, era la buona… Ma non deve succedere. No. No... Lasciate stare",
Il grande paesaggio dove risplendeva la Sainte-Victoire al di sopra degli avvallamenti bluastri, fresco, tenero e radioso, ingannava i cespugli dove lo travolgeva il vento. Vedemmo, squarciati dalla burrasca, i lembi rossi della tela, i marmi rossi, i pini, il monte adornato, il cielo intenso… Era, in confronto alla natura stessa, un capolavoro che la eguagliava. Cézanne, con gli occhi fuori dalle orbite, osservava con noi. Una collera incontenibile, pazzia, non sapevamo cosa prevalesse. Si diresse verso il quadro, lo prese, lo lacerò, lo gettò sulle rocce, lo squarciò a colpi di scarpa, lo calpestò. Quindi, contrito, si accasciò, e mostrandoci il pugno come se fossimo responsabili: “Andatevene, ma lasciatemi in pace…" 
E, nascosti tra i pini, lo intendemmo piangere più di un'ora come un bambino. Non voleva alzarsi più..."

domenica 1 settembre 2013

Il Leader come protagonista

Il potere personale consiste nel prendere la propria vita sottobraccio e accompagnarla verso gli obiettivi che la persona decide.
Molti al loro potere personale non hanno mai pensato. Vivono come “belli addormentati”, aspettando che la vita decida cosa fare di loro.

La medicina, studiando i vari tipi di questo sonno, hanno riconosciuto due tipi di sonno del potere personale. Il tipo più grave e dannoso è il “sonno di stadio 4”.
I dormienti di stato 4 sono coloro che si pongono consapevolmente nella situazione di chi prende atto della vita, senza concepire altre alternative che accettarla come si presenta (e come si è), che credono alle notizie sui giornali e alle pubblicità, che giocano al lotto, che si ammalano ogni volta che c’è un'ondata di influenza.
Stanno seduti sulla stessa sponda del fiume da anni, vissuti dalla vita, attraversati dagli avvenimenti.
E non sanno di morire un poco ogni giorno avendo sprecato il loro potere e possibilità, senza aver vissuto. Meno grave, ma più crudele, è la situazione degli “addormentati disturbati”, quelli del sonno di stadio 1. Essi hanno il ben noto “sussulto del dormiente”. Con momenti di risveglio lucido e improvviso nel quale si accorgono che esiste un modo di vivere intenso e interessante, durante il quale se sono sereni si sentono forti.
Capiscono di avere della potenza da esplicare, ma l’idea di prepararsi ad agire, di doversi mettere in moto, di doversi scegliere dei compagni di viaggio li frena e li trattiene.
“E se poi non serve? E cosa diranno gli altri? E se mi rendo ridicolo? E se mi faccio male? E se soffro?” Ed ecco che arriva la paura che si traveste da buon senso, da prudenza, da capacità di accontentarsi. “Forse la mia vita non è poi così male. Chi si accontenta gode”.

Quindi voglio e devo rivolgermi alle persone sveglie e consapevoli, che vogliono confermare ed applicare il loro potere spirituale e rinforzare l’impegno ed il piacere di vivere esercitandolo.

Bisogna scegliere un modo di vivere, una consapevolezza di sé, una partecipazione ai rapporti con gli altri, che ci offra la possibilità di avere fiducia in sé, di essere rispettati, di essere leader, di avere successo in ciò che si vuol fare.

DIVENTARE PROTAGONISTA DELLA PROPRIA VITA
Dovremmo sapere cosa vuol dire “protagonista” se abbiamo esperienza teatrale. Dal greco “protos” che significa primo. Il protagonista-leader occupa il posto centrale in qualsiasi campo, è al centro di ogni vicenda, dà il suo marchio nell’ambito in cui opera e vive.
E’ sempre popolare nell’ambito in cui vive, che lo riconosce come meritevole di grande attenzione.



I PROTAGONISTI
E’ come se costoro avessero deciso, consapevolmente o meno, di assumersi la responsabilità di essere vivi e quindi di agire in modo auto-realizzante sia nelle piccole azioni, sia nelle grandi scelte.
Quando accettano o devono fare un lavoro che non piace o si accorgono di avere una malattia, non stanno sul dolore o la rassegnazione, ma si organizzano rapidamente e lucidamente per modificare la situazione e perdere meno terreno possibile nei confronti della vita.

Il rispetto di sé viene prima del rispetto degli altri. Ma non è egoismo. Si tratta di dignità, di autosufficienza, di autonomia (autos e nomos = regola se stesso). E può apparire, a seconda dei soggetti: leggero distacco, spazio tra sé e gli altri ma, soprattutto, accettazione ed elezione della solitudine, non come rifugio in se stessi, ma come luogo della sorgente vitale e della ricarica spirituale.
I protagonisti-leader stanno volentieri con gli altri, sono socievoli e trascinatori, quasi sempre anche leader carismatici (ascendente o carisma personale), ma sentono come indispensabile il bisogno di rimanere ogni tanto da soli, di stare con se stessi, di riflettere (pensare), di organizzare per proprio conto la propria energia. (Capacità di gestire le proprie fonti di energia: fisica, mentale, sensuale emotiva).

E’ proprio l’energia la loro caratteristica principale. Una energia con le quattro “E”.
“Energy”: avere energia;
“Energize”: capacità di trasmettere energia agli altri;
“Edge”: la volontà, voglia, desiderio, di vincere;
“Execute”: la decisione di agire

Una volta si pensava che la “conoscenza” fosse il differenziale strategico tra le persone. Essa è ancora fondamentale. Ma la si può acquisire studiando, la specializzazione la si può comprare. Solo l’energia personale c’è sempre. E si trova solo dentro alle singole persone. Ma bisogna risvegliarla. E i dormienti non lo sanno, o non hanno la tensione ad usarla. I leader sì.

La persona energica produce valore, che si traduce in potere. Ed è proprio il potere l’altra consapevolezza distintiva del leader. Il potere nelle sue tre forme di uso: potenza, potenziale, potenziamento.
La potenza definisce la sensazione di possibilità, di forza in uso nel presente, il numero di giri del motore mentre viaggia. L’energia dell’azione.
Il potenziale definisce l’energia di riserva, la carica accumulata, il progetto interiore, le mete da raggiungere non ancora messe in atto. Il potenziale umano del leader è di tipo auto promozionale: quello focalizzato sulla volontà di vivere e di realizzare.
Il potenziamento definisce la trasformazione del potenziale e viceversa; il cambiamento ed il miglioramento dell’agire attraverso l’impegno e l’espressione delle proprie risorse interiori.
Le persone fanno potenziamento quando si sforzano di migliorare le loro reazioni o di aumentare le loro conoscenze e capacità. Il potenziamento viene spesso realizzato grazie l’intervento di altre persone che stimolano, indicano le modalità, le vie per il miglioramento delle prestazioni. E’ il compito di genitori, educatori, capi, maestri, allenatori.

Il leader si potenzia da solo, per istinto, perché si diverte e si realizza nella sfida continua con i propri limiti.
Messner, il primo a scalare tutti gli 8000, quando cadde e non potè più scalare, si trasformò in esploratore: “Per me vivere vuol dire andare oltre. Ogni giorno è un punto di partenza”.
Per ogni leader non esiste limite fisso ed invalicabile, in nessun campo. Ogni risultato raggiunto diventa la constatazione che era possibile e si trasforma in un nuovo punto di partenza. La sfida è sempre con sé stessi prima che con chiunque altro.

Non sono il successo o la popolarità a giustificare l’impegno e la tenacia del leader per l’autopotenziamento. Ciò che lo muove è proprio il concetto di “potere”: possibilità e potenza a disposizione, creazione di realtà nuove, influenzamento di quelle esistenti (protagonista). 

(Dal Seminario di Aletheia “Il Leader come Protagonista” – 25 Agosto – 1 Settembre 2013)

sabato 20 luglio 2013

La finitezza, strumento di libertà

Quando si parla della morte, si vedono i gesti più strani, gli scongiuri più arcaici e anche, senza dubbio, più comici.
Come fare a parlare della morte, senza che la gente scappi? E poi perché parlarne? “Non si può parlare di cose più allegre e leggere?”  A cosa può servire parlare della morte?

Qualcuno dice: “Per non averne più paura”. Ma non quando arriva, ma durante tutta la nostra vita, durante la quale questo pensiero ci toglie una bella fetta di libertà. Come si può infatti parlare di libertà, se non siamo liberi di pensare e parlare di qualcosa di così determinante per la vita quale è la morte?
Questa rimozione della morte dai nostri pensieri e discorsi, trova una possibile giustificazione nell’assenza di immagini della morte. Non della morte in genere. Di quella ne siamo bombardati, ma della nostra morte.
Cacciari direbbe: “Qui c’è questo scandalo originario: di non poter parlare della morte dell’io”
Sappiamo anche di tutte le tecniche di consolazione. 
(Busto di Epicuro)
Anche la filosofia, con Epicuro: “Quando c’è la morte non c’è l’io. E quando ci sono io non c’è la morte”.
Una rappresentazione della morte non puoi averla. Non è riempibile dall’io. Giorgio Pigafetta parla della morte come “la più vuota delle immagini”.
Se non posso parlare della morte, non avendone una possibile immagine, posso parlare del morire. Non parlo della morte come fatto, che è la più vuota delle immagini. Ma il morire come “verbum agenti”. Come azione. Posso dire: io sono morente.
Ma cosa vuol dire: morire? E’ un mio fatto. Una dimensione del mio agire.
La filosofia ha molto da dire sul morire. Cosa faccio parlando? Pongo tesi, negandole, il negare non è tipico del pensare. Ma cos’è il negare? Non è un trasformare? Non c’è quindi sempre un morire di qualcosa di me?
La morte, il morire è un fatto che ci riguarda.

Il morire non è implicito in ogni gesto di libertà? Cosa avviene nel pensare il morire? Ci potremmo pensare come liberi da ogni condizionamento. Quindi anche qui ci imbattiamo nella libertà: c’è la morte, che ci libera.
Hegel dice: “La morte è come l’agitarsi dei venti che salva l’esserci dalla putredine”. Morire vittoriosi. Essere capaci di morire (Nietzsche). Come espressione della nostra volontà. Potere morire.
Evitare il confronto con il poter morire vuol dire evitare il confronto con la vita. Capaci di morire. Anche in Fauerbach. Pensare la morte come una nostra capacità. Nessun altro animale è capace di morire.
Pigafetta parla dei poeti. Valery: giungere attraverso una meditazione al poter dire: “Ho fatto quello che dovevo”. Il morire bene. Kalos, cioè bello. Morire compiuti, contenti. Antigone: “Muoio kalos”. Essere capaci di questo morire.
Questo è l’opposto alla morte dell’Ivan Ilic di Tolstoj. Lui dice alla fine: “Questa è la vita di un altro”. Non può dire kalos. “La mia vita è stata una morte (in vita) e ora crepo”

Valery pensava all’opera compiuta. Opus, perfetta. Ma c’è solo questo significato aristocratico?
In modo più generale la propria vita va vista come un’opera, di cui il morire è il degno compimento. Bisogna pensare non a quel punto estremo a cui giunge la vita, ma in ogni istante della vita, avvertire quell’istante (istante = qui sto). Fare di ogni ora un istante come se fosse il mio ultimo. Precorro quel compimento come se fosse l’ultimo. L’ultimo istante.

(Martin Heidegger)
Questo lo si coglie in Heidegger. Essere e Tempo. Essere per la morte. Meditare in ogni istante all’estrema possibilità che è quella della morte. E io se vivo autenticamente non posso che pensare in ogni istante l’estremo possibile, che è quello in cui ogni possibilità si toglie.
Ma si può dire: “Sì, ma nell’ora in cui io precorro il mio estremo possibile, devo fare i conti in ogni istante con me stesso. Devo rispondere compiutamente ogni ora alla grande domanda escatologica”. L'escatologia in quanto legata alle aspettative ultime dell'uomo può influenzare in modo significativo la visione del mondo e il comportamento quotidiano.

In ogni istante. Fare di ogni momento della mia vita un istante. L’istante ultimo. Dove c’è la compiutezza. Quindi non solo assumere la propria finitezza. Come dice Heidegger. Ma anche sentire la responsabilità di ogni istante per rispondere alla compiutezza della mia vita.

domenica 2 giugno 2013

"Operette Morali di Giacomo Leopardi"



"Credi a me, caro amico: non c’è fastidio della vita, non c’è disperazione, senso della nullità delle cose, della solitudine dell’uomo; non c’è odio del mondo e di sè medesimo; non c’è nulla che possa durare per sempre. Benché siano condizioni dell’animo ragionevolissime, passato un poco di tempo, cambiata la disposizione del corpo e dell’animo, a poco a poco e a volte anche subito, per motivi incomprensibili e anche minimi, rinasce il gusto della vita, rinasce una speranza. E ciò basta a produrre l’effetto nella persona di perseverare nella vita e a proseguirla, perché è quel senso dell’animo e non l’intelletto quello che la guida (…….) 
E la vita è una cosa così poco rilevante che non dovrebbe essere così diverso il tenerla o il rifiutarla (…..) Viviamo, amico mio, e confortiamoci assieme: non rifiutiamo di portare quella parte che il destino ha stabilito per noi, compresi i mali della nostra specie. Teniamoci compagnia e andiamo a dare coraggio a chi ci vuole bene. Per compiere nel modo migliore questa fatica della vita". 
(Giacomo Leopardi, da "Dialogo di Plotino e di Porfirio")

sabato 13 aprile 2013

Elegie Duinesi - Un fievole alito verso l'Infinito


Una fredda mattina d’inverno, un uomo passeggia fuori, all’aperto, lungo le scogliere. Sta lì, nella solitudine piena, pura. D’improvviso avverte una misteriosa voce interiore, che si confonde col soffio delle acque e dei venti:

"Chi, s’io gridassi, mi udrebbe
dalle celesti gerarchie degli Angeli?
E se anche uno mi stringesse d’improvviso al suo cuore
perirei della sua troppo forte esistenza"
                                
(Rainer Maria Rilke)
Un uomo grida, grida il suo senso di piccolezza, davanti al mistero dell’esistenza universale. Un senso di terrore. La tragica scoperta della precarietà del mondo. Una profonda presa di coscienza della condizione umana, sospesa nel vuoto, l’apparire momentaneo di ogni cosa  terrena. La vita sembra impossibile.


L'uomo cerca, col suo grido, qualcuno, qualcosa di durevole presso cui poter stare. Prova con gli angeli, ma si accorge subito che non è possibile. Nessuno lo sentirà. Sono troppo lontani, troppo grandi e sono troppo forti.


L’angelo è bello, è il bello;
Ma "il bello non è che il principio del tremendo,
che noi ancora ammiriamo e sopportiamo, che quieto disdegna di annientarci".

Appena oltre il bello c’è una verità troppo grande per noi, una conoscenza terribile.

E così il grido si inghiotte e diventa un cupo singhiozzo. E allora, con chi possiamo trovare una vera, rassicurante comunione? 

"Gli angeli no, 
gli (altri) uomini neppure", ognuno preso dalla sua necessità di vivere.

Gli animali forse?
"Ma loro lo notano subito
che non siamo a nostro agio in questo mondo", un mondo che abbiamo trovato così, nel quale ad ogni cosa è già stato dato un significato. 
Ma come dire noi quelle cose?

"Ci resta forse un albero
là sul pendio, che ogni giorno rivediamo; 
ci resta la strada di ieri ed anche una viziata
abitudine, che stava bene con noi
e non se n’è andata e rimase"

Cosa ci resta ancora?

La notte, il tempo dell’attesa, con il suo “vento colmo di spazi”, che però alla fine ci corrode il volto. Tutti i grandi presagi che la notte evoca, promesse che potesse dirci, nel suo silenzio, qualcosa di vero e profondo su noi stessi. Tutte promesse deluse.

Forse gli amanti, nella notte, riescono ad avere la sensazione di una comunione totale, si illudono di potersi rifugiare l’uno nell’altro, ma in realtà, non fanno che impedirsi l’un l’altro la loro condizione umana. E alla fine, anche l’abbraccio più intimo, resta vuoto.

"Non lo sai ancora? Getta dalle tue braccia il vuoto"
Apri le braccia e aggiungi il tuo vuoto allo spazio del mondo, che sentirai ancora più vasto, ma anche più intimo. Ma che cosa lega noi al mondo?

"Sì, primavere ebbero bisogno di te
……… o forse, là dove passasti
ti si offriva un violino"


(Le "Elegie Duinesi")

Il mondo vuole forse che noi lo percepiamo. Ma tu non ci fai caso. Sei troppo “distratto dall’attesa” di qualcosa per te stesso. Un’amata, un amato. Ma se anche arrivasse ciò che attendi, dove vuoi ospitarlo? Tu non hai casa nel tuo intimo, per niente e nessuno. Non hai una vera interiorità, e i pensieri vanno e vengono, e non si fermano.

Esiste forse qualcuno che ha questa interiorità, questa casa?


Forse le amanti, ma quelle abbandonate, il loro amore non ricambiato, l’hanno tenuto intatto dentro il loro cuore. Loro sì, dall’antico dolore dell’amore, hanno imparato qualcosa sul senso autentico dell’esistenza.

E’ tempo che si impari, è urgente, perché decide della nostra vita. Ma quell’amore, diretto tutto verso una persona, deve potersi dirigere verso la realtà tutta.

"Voci, voci, odi mio cuore ………,
Ascolta come spira l’ininterrotto messaggio
che dal silenzio si forma"

Stare in ascolto, non chiusi in se stessi, ma aprirsi all’ascolto di ciò che nel silenzio parla. Nel silenzio le cose mute ci parlano. 
Quel silenzio dell’origine, che.."Sussurra a te, ora, di quei giovani morti"

Quelle morti che hanno per noi “un’apparenza di ingiustizia” perché non hanno potuto compiere le loro esistenze.

"Certo è strano non abitare più la terra
A rose e a cose che sono chiara promessa
non dare più il senso di umano futuro
Ed anche il proprio nome abbandonare
come un giocattolo infranto"

Ma noi viventi commettiamo l’errore di distinguere con un solco troppo profondo la vita dalla morte. I morti non sono meno reali dei vivi, questo gli angeli lo sanno bene. I non ancora nati, i viventi e gli antenati…

"L’eterna corrente trascina
attraverso entrambi i regni sempre con sé"

I morti non hanno bisogno di noi. Siamo noi ad aver bisogno di loro. Abbiamo bisogno dei misteri dell’esistenza. E poi, è nel dolore del lutto che la nostra anima cresce. Ma stare nella profondità del sentire non è facile da sopportare, perché significa rinuncia a quanto è terreno. La morte non è fine, ma una prodigiosa porta oltre la quale il movimento continua, in una serie infinita di metamorfosi.
Questo ci dice la voce dei giovani morti. Ma comprendere questo messaggio non basta. Bisogna attuarlo, qui, vivo tra i vivi. La morte non è fine. Dobbiamo trasferire la  potenza di questa visione in ogni nostro sentimento, pensiero, gesto e parola.
La parola poetica, il canto, che anche se è solo un fievole alito verso l’infinito, ci consola e ci aiuta.

martedì 26 marzo 2013

Il Teatro per rifare la Vita - Artaud


In questo tempo, più che in altri, l’esistenza del Teatro sembra quasi anacronistica, sia per chi lo fa, sia per chi ne fruisce.
Ci sono talmente tanti problemi “reali”, quotidiani, esistenziali, fisici e metafisici, che il Teatro sembra risultare un’arte antica e antiquata, valida forse per strappare una risata scacciapensieri in questi tempi oscuri.
Eppure il Teatro è senza dubbio lo strumento più adeguato per imparare la vita, per conoscerne le possibilità, per incontrare se stessi, i propri limiti, la propria più intima natura.
Ma oggi non c’è più tempo per imparare a vivere. Si può solo cercare di sopravvivere.
Ma incontriamo un personaggio che aveva capito, un secolo fa, che la vita bisogna costruirsela, non lasciarsela cadere addosso. E l’aveva capito proprio attraverso il Teatro, che aveva iniziato, come alcuni, come pochi, per cercare di capire qualcosa della vita e di se stesso. Antonin Artaud.

(Antonin Artaud, 1928)
Le idee del suo teatro vanno oltre il teatro stesso. Il “teatro della crudeltà” trasforma il teatro della parola, dei gesti, dell'immagine, dove diversi mezzi s'incontrano su un territorio comune e dove si ha una presa di coscienza di forme e di sensibilità coniugate. Il lavoro di Artaud tende a superare un mentalismo esasperato.

Per Artaud, il teatro non deve essere imitazione della vita: il teatro è un mezzo per rifare la vita. Ciò che avviene sulla scena non deve essere fatto per rappresentare, per "far capire" al pubblico. Ciò che avviene deve avvenire realmente, in quell'istante, deve essere reale (se l'attore si strappa i vestiti, deve farlo davvero, se colpisce qualcuno con una sberla, deve essere una sberla vera, se racconta qualcosa di personale, deve essere qualcosa veramente personale, ecc.).

In questo senso l'attore deve essere crudele, e lo stesso Artaud definisce in questo modo il termine crudeltà: "La parola crudeltà deve essere intesa in senso lato e non nell'accezione fisica e rapace che abitualmente le si attribuisce. Si può benissimo immaginare una crudeltà pura senza strazio carnale. Del resto che cos'è la crudeltà in termini filosofici? Dal punto di vista dello spirito crudeltà significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta".

Artaud sostiene che una vera e propria opera teatrale libera l'inconscio, scuote la pace dei sensi, spinge ad una sorta di rivolta virtuale. L'unica vera Rivoluzione che lo appassiona è quella interiore. Non è interessato agli aspetti sociali: "La Rivoluzione non consiste in una semplice trasmissione di poteri dalla borghesia al proletariato. Una Rivoluzione che ha messo al vertice delle sue preoccupazioni le necessità della produzione e che perciò insiste nel fare affidamento sul progresso meccanico è per me una rivoluzione di castrati. Ed io non mi nutro di quell'erba".

Evento, azione e performance devono colpire ai nervi lo spettatore. La violenza sui sensi deve avere il sopravvento, e la percezione dello spettatore deve spostarsi anche su qualcosa di magico, di invisibile e di segreto, e da qui nasce il "doppio" della realtà, che poi si rivela quella vera. L'attore deve quindi presentare un "doppio" fatto di realtà umana, ma quella vera, sempre celata sotto il velo dell’apparenza, della tecnica, del formalismo.

(Artaud fotografato da Man Ray, 1926)

L’attore (l’uomo) deve cercare la verità ad ogni costo, puntando su una sollecitazione emotiva, anche sregolata ed eccessiva, senza argini. Non serve riprodurre la realtà, ma invece cercare di portarsi ai limiti, annullandosi nell'emozione. Grazie a questo annullamento, Artaud crede che l'emozione si possa manifestare nella sua assoluta verità.

Tale manifestazione deve essere efficace, cioè produrre effetti reali, per chi la realizza e per chi la riceve.



La persona-attore è totalmente presente, con corpo e mente, perché ciò che vive lo vive davvero, non per finta, e l'azione che compie in tali condizioni è quindi un'azione cosciente, intesa come condizione che realizza la piena coincidenza di volontà e azione.

Nella formulazione delle sue teorie Artaud fu molto influenzato dall'incontro con Daumal, (seguace di Gurdjieff e del suo lavoro per la conquista della coscienza) e dal rapporto con Guenon, esponente della cultura esoterica, che profetizzava la rovina dell'Occidente a causa della perdita della tradizione orientale.

Il Teatro per Artaud è un processo che riguarda ogni essere umano, non solo chi fa l'attore. Artaud, e forse anche noi, indipendentemente da età, condizione sociale, problematica esistenziale, potremmo cercare e trovare nel teatro un cambiamento dell'essere, da effettuarsi attraverso l'azione che permette alla persona di scoprire se stesso e la sua coscienza.

L'obiettivo della persona-attore non è lo spettacolo, ma la conoscenza reale, la presa di contatto con l'istante presente: la coscienza. E in questo percorso di scoperta non viene posta alcuna limitazione mentale, nervosa o muscolare. Il gesto, attivando forze - e non più descrivendo forme, per quanto belle - può creare direttamente la realtà.

Artaud verrà spesso considerato un visionario. In seguito la sua visione verrà ripresa da Jerzy Grotowsky, che più di altri riuscirà ad avvicinarsi concretamente a ciò che Artaud aveva teorizzato: il teatro come svelamento, come Aletheia, come scoperta di sé e della propria vera coscienza.

Ed è con questa costante necessità che anche noi ci muoviamo cercando di non dimenticarci che la vita non è quella già fatta, ma quella che rifacciamo noi, avendo a disposizione un mezzo straordinario e immediato, dove “provare a vivere”: il Teatro.

"Se sono un poeta o un attore (o un uomo) non lo sono per scrivere o declamare poesie (o sopravvivere), ma per viver(le). Quando recito una poesia (o agisco nella vita) non è per essere applaudito, ma per sentire me stesso e gli altri corpi d'uomini e di donne - dico corpi - tremare e volgersi all'unisono con il mio” (Antonin Artaud)

mercoledì 27 febbraio 2013

Schubert - L'arte di soffrire


Assai spesso l'esaltazione creativa è il risultato di uno stato fisico deficitario, l'euforia creativa l'altra faccia della depressione psichica, l'apparente eccedenza di energia non di rado un atto di forza. Qualcuno dice che la vera creatività nasce dall'intensità dell'esperienza emotiva.

Quando Franz Schubert viene assunto come assistente scolastico racconta: "E' vero, ogni volta che componevo, quella piccola marmaglia mi faceva tanto inquietare da farmi perdere il filo. Naturalmente li picchiavo di santa ragione"Ad un certo punto prese la decisione di sfuggire all'oppressione della scuola…….

(Franz Schubert)
Accetta il lavoro di insegnante privato a due giovani contessine: "Non c'è nessuno qui che sappia capire la vera arte, perciò sono solo con la mia amata e debbo celarla nella mia camera, nel pianoforte, nel petto. Pur se talvolta questa mi rattrista, tal altra mi fa sentire superiore".

"Le mie opere nascono solo grazie all'impegno musicale e al dolore; quelle nate soltanto dal dolore sembrano le meno gradite".

Il dolore da solo, per quanto violento, non può produrre nessuna arte.

Fuga nella nevrosi anziché legarsi alla passività, fuga nell'arte. L'arte diventa una seconda natura. Per vivere, per sopravvivere, Schubert deve produrre arte. Il lavoro è la nevrosi e nello stesso tempo l'unica terapia possibile della nevrosi. Non significa necessariamente che Schubert soffrisse anche durante il lavoro, anzi le ore dedicate al lavoro erano le uniche prive di sofferenza. 
Il patimento che le precedeva era indispensabile come stimolo?.. 
Nessuno gode a soffrire. Il patire è una capacità e dunque anche un'arte. Chi è capace di soffrire, chi sa convivere col proprio dolore, e non chi lo reprime o se ne difende, non deve portare o sopportare il dolore, ma effonderlo, trasferirlo. 

"Esiste davvero la musica allegra? Io non ne conosco nessuna".. 

E' il caso di un artista per il quale la solitudine è condizione indispensabile per il lavoro creativo che, a sua volta, porta l'isolamento sociale. Chi comincia a soffrire, continuerà a soffrire, perché l'organismo si è fatto ricettivo al dolore.
"Nessuno che comprenda il dolore dell'altro, nessuno che comprenda la gioia dell'altro"
Com-patire è impossibile, perché i sentimenti sono di volta in volta ritagliati a misura di un individuo e si sottraggono al linguaggio.


venerdì 25 gennaio 2013

Salvador Dalì' - Il destino di ribelle

C'era un tempo in cui accadevano veri miracoli, in cui grandi artisti si incontravano e creavano insieme le magie, capaci di trasformare la nostra vita per sempre. Forse anche oggi accadono, talvolta, questi momenti. Ma, un incontro tanto fantastico quanto quello tra Salvador Dalì e Walt Disney, ancora non c'è stato. Due uomini capaci, con la forza della fantasia e dei sogni, di plasmare il nostro immaginario e la cultura globale, due giganti dell'arte che decidono di realizzare un'opera insieme, la somma di tutto il loro percorso creativo.

(Una scena dal film "Destino")
Stiamo parlando di "Destino", il cortometraggio che Dalì e Disney avevano deciso di realizzare insieme. La storia di una ballerina in cerca dell'amore, che sembra trovare, alla fine, nell'incarnazione stessa del tempo. Solo fondendosi con il mondo dei sogni potrà, però, raggiungere il suo uomo, e così deve perdersi in un delirio surrealista, quasi che fosse caduta nel pennello del grande pittore catalano, fino a diventare parte del suo amato. Circa sei minuti di pura poesia in cui viene inserito tutto l'universo daliniano, dagli orologi molli alle pagnotte da portare come cappelli, dal baseball come metafora della vita, ai giochi prospettici, dai paesaggi metafisici alle formiche.

Non ci si deve dimenticare che Dalí fu influenzato non solo da artisti suoi contemporanei, ma da tutto il mondo dell'Arte. Come una spugna assorbiva dagli stili artistici più classici ai movimenti d'avanguardia più estrema. Fra gli artisti che più lo ispirarono del mondo classico, ricordiamo: Raffaello, Bronzino, Francisco de Zurbaran, Vermeer e Velázquez.

Sigmund Freud si dichiara profondamente interessato nello scoprire la genesi delle opere di Dalì, ma quello che più lo affascina è la complessa personalità del pittore. Freud, pur non conoscendo la vicenda interiore di Dalì, deduce che qualcosa, nel corso della vita, lo ha intaccato dal punto di vista psicologico.
Dal canto suo Dalí ha un grande interesse per le teorie freudiane e la psicanalisi, che lo portano a focalizzarsi sul proprio inconscio e a farne la fonte d'ispirazione per il suo lavoro. Con la pittura, Dalí si propone di sondare e conoscere le proprie ansie, fantasie e frustrazioni.
Il metodo attraverso cui le pulsioni dell'inconscio possono assumere forma pittorica si ricollega all'automatismo psichico dei surrealisti teorizzato da Breton. “Automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente che per iscritto, o in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale”.
A tale automatismo psichico Dalì assegnò un nome preciso: metodo paranoico-critico.
E lo spiega in un saggio fondamentale, "La conquista dell'irrazionale" (1935), dove descrive le proprie ricerche e afferma:
"Tutta la mia ambizione sul piano pittorico, consiste nel materializzare, con la più imperialistica smania di precisione, le immagini dell'irrazionalità concreta... che provvisoriamente non sono spiegabili né riducibili attraverso i sistemi dell'intuizione logica o i meccanismi razionali".
E ancora:"Attività paranoico-critica: metodo spontaneo di conoscenza irrazionale basato sull'associazione interpretativo-critica di fenomeni deliranti".  

Dunque, le immagini che l’artista cerca di fissare sulla tela, nascono dal torbido agitarsi del suo inconscio (la paranoia) e riescono a prendere forma solo grazie alla razionalizzazione del delirio (momento critico). Nascono così immagini di straordinaria fantasia, tese a stupire e meravigliare, grazie alla grande artificiosità della loro concezione e realizzazione.

Dalì, con grande coraggio, ha deciso di essere un artista in ogni senso, di fare della sua stessa esistenza un'opera d'arte, di essere un uomo pubblico, un uomo che è riuscito a fare di se stesso un divo. Ma era anche un uomo dalla curiosità insaziabile: nelle sue opere, si trova un'eco di tutte le scoperte e le invenzioni, di ogni dubbio o domanda.
Nelle sue tele, circonfuse di una lucida "folie", la mente e il genio trasportano le curiosità e gli interrogativi ancestrali che l'umanità da sempre si pone. Nell'alone surreale dei suoi dipinti vediamo nascite inverosimili e terribili, purezze ed estasi deliranti in un roteare geometrico di sfere, persone e passioni trasfigurate e trasportate in un altrove cosmico privo di leggi e ragione, dove ogni cosa è possibile. Dove ogni cosa è forse più reale di come ci appare nel mondo della realtà.

Salvador Dalì fu un uomo che riuscì a rendere la sua vita una provocazione continua, uno schiaffo morale al cosiddetto buon gusto dell'alta società e alle sue ipocrisie. La sua stessa esistenza  può essere paragonata ad un'opera d'arte: per l'intensità che ha sempre caratterizzato ogni minuto della sua giornata; per l'amore, talmente forte da sembrare inverosimile, che lo univa a Gala, sua musa e amante; per quello sguardo che penetrava lo spazio e leggeva oltre la parvenza delle cose; per quei suoi modi di fare strani e inclassificabili, che lo hanno reso unico e indimenticabile.
La singolarità dell'uomo, la genialità dell'artista, la fantasia della ragione, dovrebbero essere per ognuno di noi, fonte di studio e di riflessione. Forse in questo caso, più che in ogni altro, è l’artista che dobbiamo guardare, quasi prima che la sua opera. Una frase, fra le molte che ci ha lasciato, è allo stesso tempo un ottimo esempio per capire il suo livello eccezionale di egocentrismo, da vedere in chiave positiva, e vuole anche essere un augurio per tutti noi, perché possiamo farla diventare nostra e possiamo godere della nostra personalità, così come fece il grande Salvador Dalí, che diceva:
“Ogni mattina, appena prima di alzarmi, provo un sommo piacere: quello di essere Salvador Dalì!”

venerdì 18 gennaio 2013

"LA PASSIONE DELLA CONOSCENZA"

Incontri culturali di conoscenza e di approfondimento di personaggi dell’Arte e del Pensiero, di movimenti artistici, di tematiche esistenziali.
              
Domenica 10 Febbraio 2013 alle ore 16,00
L’ULTIMO BAUDELAIRE
La Lotta tra Poesia e Modernità”

Domenica 24 Febbraio 2013 alle ore 16,00
   CARAVAGGIO - “La Bellezza del Male”
FRIDA KAHLO - La Vittoria sul Destino”
  
Domenica 10 Marzo 2013 alle ore 16,00
GERTRUDE STEIN - “Sfida al Senso della Vita”
KATHERINE MANSFIELD
   “Una Voce sulla Soglia tra Terra e Cielo”

Domenica 24 Marzo 2013 alle ore 16,00
J. C. F. Hölderlin - “Il Viandante e la Bellezza
GEORGE SAND - “La sorella di Goethe”


Ingresso riservato agli associati
Tessera associativa annuale €10
Prenotazione obbligatoria

  
Associazione artistico-culturale ALETHEIA
Via Bertelli, 16 – 20127 Milano
Tel.  02.28.96.423 – associazioneculturalealetheia@gmail.com