Quando si parla della morte, si
vedono i gesti più strani, gli scongiuri più arcaici e anche, senza dubbio, più
comici.
Come fare a parlare della morte, senza che la gente scappi?
E poi perché parlarne? “Non si può parlare di cose più allegre e leggere?” A cosa può servire parlare della morte?
Qualcuno dice: “Per
non averne più paura”. Ma non quando arriva, ma durante tutta la nostra
vita, durante la quale questo pensiero ci toglie una bella fetta di libertà.
Come si può infatti parlare di libertà, se non siamo liberi di pensare e
parlare di qualcosa di così determinante per la vita quale è la morte?
Questa rimozione della morte dai nostri pensieri e discorsi,
trova una possibile giustificazione nell’assenza di immagini della morte. Non
della morte in genere. Di quella ne siamo bombardati, ma della nostra morte.
Cacciari direbbe: “Qui
c’è questo scandalo originario: di non poter parlare della morte dell’io”
Sappiamo anche di tutte le tecniche di consolazione.
(Busto di Epicuro) |
Anche
la filosofia, con Epicuro: “Quando c’è la morte non c’è l’io. E quando ci sono
io non c’è la morte”.
Una rappresentazione della morte non puoi averla. Non è
riempibile dall’io. Giorgio Pigafetta parla della morte come “la più vuota delle immagini”.
Se non posso parlare della morte, non avendone una possibile
immagine, posso parlare del morire. Non parlo della morte come fatto, che è la
più vuota delle immagini. Ma il morire come “verbum agenti”. Come azione. Posso
dire: io sono morente.
Ma cosa vuol dire: morire? E’ un mio fatto. Una dimensione
del mio agire.
La filosofia ha molto da dire sul morire. Cosa faccio
parlando? Pongo tesi, negandole, il negare non è tipico del pensare. Ma cos’è
il negare? Non è un trasformare? Non c’è quindi sempre un morire di qualcosa di
me?
La morte, il morire è un fatto che ci riguarda.
Il morire non è implicito in ogni gesto di libertà? Cosa
avviene nel pensare il morire? Ci potremmo pensare come liberi da ogni
condizionamento. Quindi anche qui ci imbattiamo nella libertà: c’è la morte,
che ci libera.
Hegel dice: “La morte è come l’agitarsi dei venti che salva
l’esserci dalla putredine”. Morire vittoriosi. Essere capaci di morire
(Nietzsche). Come espressione della nostra volontà. Potere morire.
Evitare il confronto con il poter morire vuol dire evitare
il confronto con la vita. Capaci di morire. Anche in Fauerbach. Pensare la
morte come una nostra capacità. Nessun altro animale è capace di morire.
Pigafetta parla dei poeti. Valery: giungere attraverso una
meditazione al poter dire: “Ho fatto
quello che dovevo”. Il morire bene. Kalos, cioè bello. Morire compiuti,
contenti. Antigone: “Muoio kalos”.
Essere capaci di questo morire.
Questo è l’opposto alla morte dell’Ivan Ilic di Tolstoj. Lui
dice alla fine: “Questa è la vita di un
altro”. Non può dire kalos. “La mia
vita è stata una morte (in vita) e ora crepo”
Valery pensava all’opera compiuta. Opus, perfetta. Ma c’è
solo questo significato aristocratico?
In modo più generale la propria vita va vista come un’opera,
di cui il morire è il degno compimento. Bisogna pensare non a quel punto
estremo a cui giunge la vita, ma in ogni istante della vita, avvertire
quell’istante (istante = qui sto). Fare di ogni ora un istante come se fosse il
mio ultimo. Precorro quel compimento come se fosse l’ultimo. L’ultimo istante.
(Martin Heidegger) |
Questo lo si coglie in Heidegger. Essere e Tempo. Essere per
la morte. Meditare in ogni istante all’estrema possibilità che è quella della
morte. E io se vivo autenticamente non posso che pensare in ogni istante
l’estremo possibile, che è quello in cui ogni possibilità si toglie.
Ma si può dire: “Sì, ma nell’ora in cui io precorro il mio
estremo possibile, devo fare i conti in ogni istante con me stesso. Devo
rispondere compiutamente ogni ora alla grande domanda escatologica”. L'escatologia
in quanto legata alle aspettative ultime dell'uomo può influenzare in modo
significativo la visione del mondo e il comportamento quotidiano.
In ogni istante. Fare di ogni momento della mia vita un
istante. L’istante ultimo. Dove c’è la compiutezza. Quindi non solo assumere la
propria finitezza. Come dice Heidegger. Ma anche sentire la responsabilità di
ogni istante per rispondere alla compiutezza della mia vita.
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