domenica 24 novembre 2013

Thomas Mann - Il decadentismo eroico

In Mann, più che in qualunque altro Protagonista, è possibile trovare aspetti che ci possono riguardare da vicino, che parlano di noi, se solo ampliamo un po’ il significato delle due grandi caratteristiche che lo caratterizzano. Artista e borghese.
(Thomas Mann)

Il borghese è colui che cerca il benessere materiale, la sicurezza, lo star bene. Oggi si tende a chiamarlo “ceto medio”. Non c’è più Pasolini e non ci sono più i proletari. Il borghese  ha valori morali comuni che più lo caratterizzano, lo determinano, e più lo limitano. L’amore, l’onestà, la fedeltà, la compassione. Ma anche l’individualismo, il consumismo, il proprio piccolo mondo, il piccolo piacere quotidiano, le proprie abitudini, le proprie piccole grandi paure.. E le preoccupazioni che da esso mondo derivano: la salute, la situazione economica, la felicità o almeno la serenità. E l’immagine di sé presso gli altri. E il proprio giudizio nel confronto degli altri

Chiamiamo artista non colui che fa arte. Artista è colui che non è portato via dalle cose del quotidiano, ma che cerca e si muove in una dimensione di distacco, di osservazione, di attenzione e lettura della realtà come parte di un qualcosa di più grande. E’ un poeta. E’ colui che osservando tutto ciò è pieno di domande, stupore, energia pura, fantasia ed immaginazione. E’ colui che contiene dentro di sé, nel proprio mondo interiore tutte queste sensazioni ed immagini e le elabora costantemente. Non vede una realtà solo soggettiva, ma la oggettiva dentro di sé. E non riesce a non dare a queste sensazioni la concretezza e la forza di una espressione effettuata in un linguaggio creativo.

Esiste poi l’intellettuale che, in genere, è una condizione che può portare ad essere artista, ma non necessariamente. L’intellettuale è colui la cui attività prevalente è quella del pensiero e della conoscenza. Il che non esclude che possa fare altro, anche di materiale, ma la sua attività intellettuale è pressoché costante. Anche nell’osservazione di sé stesso, degli altri, e della realtà. E con una grossa componente di studio, che usa per capire e conoscere la realtà. In genere anche di questa attività mentale, l’intellettuale, il vero intellettuale, o la trasforma in arte o in un’altra forma di espressione, non ultima il comportamento.

Potremmo arrivare a dire che il borghese è mosso dai bisogni primari e secondari, di origine esclusivamente meccanica e determinata, determinata dalla realtà (in genere materiale) che lo circonda e che lui vede e considera come unica possibile; l’artista e l’intellettuale sono coloro che, togliendosi il più possibile da questo meccanismo, sono in grado e cercano prevalentemente di vedere, studiare, conoscere e descrivere la realtà sia materiale che immateriale, in una condizione seppure non di libertà, ma di maggior neutralità, di minor peso del sentirsi individuo che vuole qualcosa di concreto per sé e combatte tutta la vita per questo.
Dal punto di vista della morale borghese, l’arte ha il difetto, se non la maledizione, di distrarre dalla vita vera, quella dei valori tradizionali. Per cui va presa con le molle e sempre a piccole dosi. Perché rischia di corrompere le anime una volta quiete, a parte i numerosi suicidi, ora meno quiete a causa della fine anche di questi valori (la morte di dio nietzschiana).

E’ chiaro che ognuno di noi dovrebbe e potrebbe fare una analisi di sé stesso e di dove si trova posizionato in relazione a questi diversi aspetti. Lavoro utile, soprattutto in relazione alla scoperta di ciò che siamo veramente da distinguersi da ciò che pensiamo di essere o vorremmo essere. Nella vita quello che sembra contare, almeno nella normalità a cui apparteniamo, è essere se stessi. E se sentirsi sé stessi risulta essere l’insieme di ciò che si fa, conviene forse non crearsi troppi inutili problemi. Lasciamo questi problemi ai Personaggi Straordinari.
(Thomas Mann con Albert Einstein)
Thomas Mann è un personaggio straordinario perché,  in lui questi elementi assumono dimensioni esasperate, mentre nelle persone normali tali elementi spesso si confondono, non avendo una forza sufficiente per combattersi eroicamente ad alti livelli. Spesso si usano i linguaggi artistici o le opere d’arte per puro diletto personale. Nel tempo libero, e come hobby o evasione.

Quando due elementi così contraddittori convivono a livelli così elevati, cosa succede all’individuo?
Che si hanno due identità? Come possono convivere? Conviene alimentare questo conflitto o trovare un compromesso? E il compromesso è sempre un abbassamento dei livelli di tensione delle due identità? Una tensione che decresce sempre più. Fino a diventare tiepida vita. Perché è difficile da reggere, sopportare, alimentare.
E come è per noi?

Thomas Mann. Borghese, artista, intellettuale.
Per Thomas Mann questo conflitto esisterà sempre e ne farà, in maniera e forma unica e irripetibile, la forza della sua arte e del suo pensiero.
Per Mann la vocazione artistica è superamento ed insieme condanna. Questo connubio produrrà per Mann sempre una condizione di malattia, che ritroviamo in tutte le opere di Mann dal Tristano al Doctor Faustus.

Voleva una vita ordinata: “una vita in sé conchiusa come un’opera d’arte”, così doveva essere. In realtà condusse una lotta disperata contro l’assedio del caos. Il caos interiore lo minacciava con la pigrizia e il perdersi nei sogni dei suoi primi anni, le inclinazioni omosessuali non vissute e il desiderio di lasciarsi andare a vivere.

Si sposerà e avrà sei figli. Lui con una mai dichiarata pubblicamente tendenza omosessuale. Perché sei figli? Per la sua parte borghese tradizionalista, basata sui valori tradizionali.

Come si sono formate in lui queste due forze e identità in maniera così prorompente? Come si gestiscono in genere queste due forze, che tutti abbiamo dentro di noi? Sopprimendole. Lui, invece,  le esalta nella sua opera (artista ed intellettuale) e nel suo comportamento (borghese).

Chissà cosa pensava veramente quest’uomo che appartiene alla grandezza della storia? 
La grandezza. Quanto uno è grande? Come si misura la grandezza? Esiste una grandezza assoluta? O sempre occorre decidere gli elementi che la compongono e il contesto in cui la si determina?
Da che estremo a che estremo arriva la grandezza di Thomas Mann? Quanto bisogna camminare per percorrere tutta la superficie della sua anima? Quanti volti, immagini, pensieri, visioni, luci, oscurità, bisogna incontrare per poter dire di averlo veramente conosciuto?

Thomas Mann, sempre accusato di ambiguità. L’ambiguità. Se guardi da un lato solo, ogni cosa è ambigua. Lui era ambiguo, perché con grande cura faceva vedere ogni volta il suo lato più opportuno e adeguato alle circostanze. Ma con sempre un grande infinito desiderio di poter incontrare due occhi che potessero cogliere ed accoglierlo per tutto ciò che veramente era. Forse come Tadzio.

(Da "Morte a Venezia")
L’immagine finale di Morte a Venezia. Lui vede Tadzio malmenato da un ragazzo più forte di lui. Tadzio poi si alza e va in mare, da solo. Poi si ferma e gli fa un cenno. E gli indica un luogo, un altrove, dove forse potersi finalmente incontrare, conoscere. E riconoscersi tra uguali. Quel ragazzo è come lui, ambiguo, forte, ma delicato, come la bellezza, malmenata dalla realtà. E allora diamoci appuntamento in un altrove, fuori da questa realtà. Gustav lo coglie, coglie lo psicagogo e forse solo a quel punto si rende definitivamente conto del miracolo. Un attimo, e tutta questa realtà scompare. Finalmente.

Thomas Mann dirà: “Per aver voglia di svolgere un'attività notevole che sorpassi la misura di ciò che è soltanto imposto, senza che l'epoca sappia dare una risposta sufficiente alla domanda "a qual fine?", occorre una solitudine e intimità morale che si trova di rado ed è di natura eroica”. 

Dice Georg Lukacs, filosofo e critico letterario ungherese: "Thomas Mann è proprio il grande storico della vita e della società borghese, come Balzac e Stendhal. Dalle sue opere i posteri apprenderanno come le tipiche figure del mondo borghese di oggi hanno vissuto e con quali problemi si sono cimentate. I problemi di Thomas Mann sono oggi, in forma mutata, i problemi di milioni di borghesi, di milioni di uomini che vivono e si evolvono sotto l’influsso della Weltanschaung borghese. E i problemi e le soluzioni che egli presenta come scrittore sono i più adatti a porre gli uomini davanti alla scelta o meglio alla convivenza difficile tra guerra e pace, tra civiltà e barbarie, tra umanità e inumanità, vita e arte, relativo e assoluto".

venerdì 1 novembre 2013

Cézanne - E' spaventosa, la vita

“E’ spaventosa, la vita”. Diceva proprio così. Ed è celebre ormai come affermazione. Qualcuno la conosce, la riconosce e la attribuisce al suo reale proprietario: Paul Cézanne.

(Paul Cézanne)
Perché, come si colloca nella sua vita una frase di questo tipo, che importanza ha, visto che Cézanne la ripete spesso alle poche persone che lo circondano?
Egli ha sempre vissuto nella sua pittura, nella ricerca costante che l’ha portato sino a dubitare della pittura stessa. Un tormento vero e proprio, la ricerca del compimento della sua opera: dipingere il mondo intero, l’intera esistenza, la vita. E nello stesso tempo l’avere coscienza che la vita, la realtà quotidiana ti porta via.


Lo sapeva, lo sentiva che la vita era piena di paure, di debolezze, che la sua vita era piena di paure e debolezze. La sua, come quella di chiunque altro, ma lui ha dipinto. Ha mostrato a chiunque abbia voglia di vedere un suo quadro, il mondo intero, l’intera esistenza.
È spaventosa, perché non ti lascia la possibilità di scegliere, perché ti lascia davanti a troppe scelte e non puoi mai sapere qual è quella giusta. Perché, la vita, ti pone davanti all’esistenza, che per una persona sola, è qualcosa di insormontabile.

E poi c’è quella virgola che separa un po’ le paure, l’esser spaventosa, e pone tutto con un certo distacco. È in quella virgola che si è collocato Cézanne, tra lo spavento e la vita: sul crinale. 
Quella virgola è come se fosse un suo dipinto sospeso tra tutti i timori dell’artista e la sua stessa vita, fatta d’arte. E infine c’è la vita, quella che tutti siamo costretti a vivere, quella che ci pone davanti alle paure e agli spaventi, davanti all’esistenza. Ed è proprio la vita ad essere l’oggetto dell’arte. L’oggetto di quello che Cézanne ha cercato di svelare alle persone.

La vita dovrebbe essere un accumularsi di strati di nuove visioni, di nuovi dettagli, di nuove sensazioni, che ogni oggetto, ogni momento della nostra vita ci sta fornendo.
L’inquietudine di Cézanne trova causa in questa costante insistenza a ricercare, a riprovare, a riguardare, ad andare dentro le cose e non essere mai sicuro di averne trovato l’essenza ultima.
Il suo assoluto bisogno di restare su quelle cose con cui ha intrecciato questa relazione così stretta, che ogni volta lo porta sempre più in fondo. E così anche la sua vita, priva di fatti, eventi, cambiamenti significativi, esprimono il suo bisogno di seguire e di decidere cosa è rilevante per lui, e non cosa è meglio e giusto e più piacevole. Ma il suo stare in questa dimensione produceva in lui la più forte sensazione possibile ad un essere umano.

La grande coscienza morale di Cézanne lo portava a cogliere la necessità di tener dentro e di abbracciare ogni volta tutto, che era fatica e infinita pazienza.
Non aveva fretta. Attendeva per ore, nascosto come una lucertola, che la luce cambiasse d'inclinazione sulle rocce della montagna, spiava i mutamenti lenti e solenni della natura. Aveva visto come l'acqua corrode le pietre nel greto del fiume, come il vento lima la roccia soffiando nei crepacci, come gli alberi si piegano e resistono nel turbine di un uragano... 
Col suo modo di dipingere voleva imitare gli stessi procedimenti della natura.

La parzialità, lo esasperava. Come lo esasperava la miseria di una cultura sempre più esclusivamente attenta agli estri sentimentali, psicologici ed emotivi del singolo.

Per lui la funzione dell’artista era di essere un punto di riferimento per la vita di tutti.

Col passare degli anni, la pittura diventava un vero atto morale. Che non si basava su intuizioni improvvise. Avanzava bensì a passi lenti e faticosi, con continui tentativi, ripetute prove.

La sua coscienza costruttiva tentava di arginare ogni volta l’erompere del sentimento naturale ed istintivo. Sentire che c’è un oltre (oltre il nostro raggiungibile) e sentire che si resta al di qua. Questa era la sua inquietudine. La mai risolta e risolvibile irrequietezza dello spirito si calmava dentro il vastissimo ansimare della natura, che lui riusciva a cogliere, in questo ascoltare senza pace.

30 anni passati di fronte alle “cose” con l’ossessione della “réalisation”. Cioè il rendere reale nella forma ciò che ci si dà in modo così frammentario, confuso, evanescente. 
La réalisation è l’esperienza che si spinge fino alla verità della cosa.
Non si può né si deve fallire di fronte al compito di rendere reale la vita inafferrabile.
E Cézanne tornava sempre al suo lavoro. Alla sua Sainte-Victoire “indescrivibile con tutte le sue migliaia di compiti” (per essere scoperta integralmente e resa reale come insieme). 
Lì si sedeva e dipingeva. Con l’ansia di far presto prima che essa svanisse. Tutto muta e si trasforma. Solo il lavoro resta. Il lavoro che deve cogliere il mutamento e l’evanescenza.

La Montaigne Sainte-Victoire è come la metafora della vita. La sua realizzazione è coglierne la verità.
(Cézanne - "Mont Sainte-Victoire vista da Les Lauves") 
L'arte di Cézanne nasce dal rapporto con la natura, meno immediato di quello degli impressionisti, meno istintivo, più meditato e profondo. Egli non può concepire la pittura al di fuori di questo rapporto; tutta la sua opera non è che un dialogo con le cose, nature morte e paesaggi, oggetti nei quali ha cercato di carpire un segreto attraverso ore di solitaria contemplazione.
Nel mondo, naturale o umano, dei quadri del Cézanne maturo non spira alcuna soggettività. Ci sono solo cose. "Cézanne - scrive Merleau-Ponty - rivela la base di natura disumana su cui l'uomo si colloca. Ecco perché i suoi personaggi sono strani e come visti da un essere di un'altra specie. Il paesaggio è senza vento, l'acqua del lago di Annecy senza movimento, gli oggetti gelati esitanti come all'origine della terra. E' un mondo senza familiarità, in cui non ci si trova bene, che vieta ogni effusione umana. Pittura disumana anche quando rappresenta un volto umano. Cézanne diceva che un viso va dipinto come un oggetto. Per questo pittore una sola emozione è possibile, il sentimento d'estraneità, e un solo lirismo: quello dell'esistenza sempre ricominciata.”
Cézanne si dedica allo studio preciso delle apparenze. Dilatava gli occhi: rinunciando alla sua interpretazione ottica del mondo, lasciava che le cose penetrassero in lui, lo invadessero. Ma il mondo che risulta poi dalla sua tela è un mondo da cui la soggettività - le abitudini visive, gli aggiustamenti percettivi, e la tradizione pittorica europea - pare esclusa, o, come direbbe Merleau-Ponty, messa tra parentesi. Egli fa epoché della storia soggettiva della visione.

Racconta Bernard, suo allievo e amico: “Un giorno, un pomeriggio di mistral, in cui venivamo a fargli una sorpresa con il mio amico Xavier de Magallon, credendo che non lavorasse, lo trovammo che batteva i piedi sulla roccia, coi pugni stretti, e che piangeva come un bambino davanti alla sua tela squarciata, portata via dal colpo di vento. E appena ci mettemmo a correre per recuperarla, spinta nei cespugli della cava: “Lasciatela lì, lasciatela, gridò… Stavo per esprimermi, questa volta… era la buona, era la buona… Ma non deve succedere. No. No... Lasciate stare",
Il grande paesaggio dove risplendeva la Sainte-Victoire al di sopra degli avvallamenti bluastri, fresco, tenero e radioso, ingannava i cespugli dove lo travolgeva il vento. Vedemmo, squarciati dalla burrasca, i lembi rossi della tela, i marmi rossi, i pini, il monte adornato, il cielo intenso… Era, in confronto alla natura stessa, un capolavoro che la eguagliava. Cézanne, con gli occhi fuori dalle orbite, osservava con noi. Una collera incontenibile, pazzia, non sapevamo cosa prevalesse. Si diresse verso il quadro, lo prese, lo lacerò, lo gettò sulle rocce, lo squarciò a colpi di scarpa, lo calpestò. Quindi, contrito, si accasciò, e mostrandoci il pugno come se fossimo responsabili: “Andatevene, ma lasciatemi in pace…" 
E, nascosti tra i pini, lo intendemmo piangere più di un'ora come un bambino. Non voleva alzarsi più..."