giovedì 26 giugno 2014

Virginia Woolf - Il Genio si fa malato


Se una persona ci dicesse di sentire gli uccellini cantare in greco, come reagiremmo? Cosa penseremmo? Ci guarderemmo in giro attenti a cogliere qualche strano suono? 
O guarderemmo quella persona con occhi sospetti?
Il mondo non ha tempo per pensare. Deve agire. E per agire, muoversi nei meandri di una realtà in continuo movimento, deve rapidamente, senza troppe riflessioni, prendere posizioni chiare e nette rispetto agli eventi, persone e situazioni che la realtà stessa gli pone davanti. E così dobbiamo immediatamente decidere tra il bene e il male, il buono e il cattivo, il sano e il malato, il capace e l’incapace, l’integrato e il disadattato e così via.

Ed ecco quindi che, come direbbe Pirandello, la persona in questione prende una forma, che le viene affibbiata dal mondo, e non riesce più a staccarsela di dosso.
Se poi questa forma riguarda lo stato mentale di una persona, ogni azione che da questa verrà messa in atto, sarà sempre per il mondo, e forse anche per lei stessa, la conferma di quella immagine/giudizio che di essa il cosiddetto mondo si è fatto.
Ogni atto che risulta incomprensibile per la nostra piccola ed inesperta, ma arrogante mente, verrà inesorabilmente targato come “follia”.
Figuriamoci poi se una persona nota, di successo, benestante, con famiglia, intelligente, un giorno decidesse inspiegabilmente di suicidarsi! Doveva essere pazza, senz’altro depressa, malata mentalmente. Nessuno pensa che ci possiamo trovare di fronte ad una persona unica, straordinaria, che vede ciò che nessuno può vedere, sente ciò che nessuno può sentire, agisce come nessuno può agire.

E se esistessero veramente gli uccellini che cantano in greco? Ma forse a furia di vedere reazioni preoccupate o terrorizzate da questo comportamento, anche questa persona visionaria comincerebbe a pensare di essere malata, depressa, mentalmente instabile. E anche arrivare all’estreme conseguenze, leggendo se stessa e la realtà come la leggono gli altri.

Ma forse dentro di noi, almeno di chi non si accontenta delle facili e tranquillizzanti risposte, potrebbe rimanere forte e chiaro il dubbio: e se esistessero veramente gli uccellini che cantano in greco?
Questo tipo di domande ce le potremmo e forse dovremmo porre per molti artisti che la Storia ha liquidato facilmente come malati. Tra essi un caso particolarmente anomalo. Virginia Woolf.

Una donna, un genio della letteratura, che si è messa nelle tasche, insieme a pesanti pietre, i segreti che solo lei aveva potuto vedere, e li ha portati con sé, nel profondo delle acque di un fiume. Lasciando noi qui, perplessi e sgomenti, ad osservare il suo bastone ed il suo cappellino, lasciati sulla sponda di quel fiume.

E’ il 28 marzo 1941. Nell’acqua del fiume Ouse, vicino alla sua casa di campagna, si uccide Virginia Woolf, uno dei più importanti personaggi della letteratura del XX secolo. La sua vita si conclude nell’acqua, con quel ritorno simbolico all’abbraccio materno. Era stata infatti proprio la morte della madre, avvenuta quando Virginia aveva 13 anni, a determinare la sua prima grande crisi depressiva.
Anche i  primi ricordi della sua giovinezza privilegiata sono legati all’acqua: il mare della Cornovaglia, dove passava felicemente l’estate; e poi “Le onde”, l’opera che l’ha portata al successo. Un romanzo intessuto di monologhi interiori, come onde in continuo fluire e rifluire, secondo quel flusso di coscienza, che si era fatto stile. Il suo stile. Scrisse una volta:
"La vita è molto solida o molto instabile? Sono ossessionata da questa contraddizione. Dura da sempre, durerà sempre, affonda giù fino alle radici del mondo, quest'attimo in cui vivo. Ed è anche transitorio, fuggevole, diafano. Passerò come una nuvola sulle onde",
                                                         
Tra il mare dell’infanzia, le onde del successo e il fiume della morte, si dipana la vita di Virginia. Una vita “liquida”, appunto, come l’acqua, in costante mutamento, sempre imprendibile, con cambi di forma e di colore, a seconda degli spazi, degli eventi e delle persone con cui entrava in contatto.
Ed è così che nasce il mito: Virginia Woolf, il genio malato.

Ma che  rapporto c’è tra malattia mentale e la sua accanita creazione artistica? Come si relazionano queste due Virginia, questi due aspetti della Woolf?

Per Virginia Woolf la malattia è fertile; senza sfuggirle si lascia prendere e trascinare nei suoi oscuri abissi. Gli uccelli cantano in greco: "il greco è una lingua che mi  piace, ma non in gola agli uccelli. E il re Edoardo, perché urla quelle parole oscene? E la madre, perché torna come il fantasma di re Amleto a rimproverarla? E perché viene quella voglia tremenda di morire? E’ questa la follia?"

Ma è la sua forza produttiva generata dalla sua malattia? O forse è la sua pulsione creatrice, vivere in un’altra realtà, che genera questa condizione?  Quale la causa e quale l’effetto?

Virginia Woolf trasforma la sua condizione di malattia nell’“inevitabile” strumento per il suo desiderio di scrivere. Cerca in tutti i modi di indagare la sua angoscia, questa presenza straniera che la espelle dalla vita.: una condizione in cui l’io è preda di un fantasma che viene dal di dentro. Quando è “pazza”, Virginia lo subisce. Quando è sana, ne scrive.

Virginia vuole vivere e vuole scrivere: per fare questo sceglie di allearsi con il nemico: "Soltanto lo scrivere controlla la mia personalità; nulla è completo se non scrivo"


Forse anche per questo non ha mai voluto farsi curare. Negli anni con il marito Leonard ha scelto di curarsi così: latte, burro, silenzio e riposo. Avrebbe potuto rivolgersi ai più eminenti dottori, ha conosciuto anche Freud, ma non lo ha fatto. Vuole comprendere quella parte della sua anima, non vuole analizzarla, ma conoscerla. Non andrà mai a raccontare ad uno sconosciuto i suoi deliri. Sono troppo preziosi. Li ha raccontati però a noi, il suo pubblico.

Per Virginia Woolf la malattia diventa parte della sua vita. “Se non vivessimo audacemente, prendendo il toro per le corna e tremando sui precipizi, non saremmo mai depressi, senza dubbio; ma già saremmo appassiti, vecchi, rassegnati al destino”.

Ma che cosa accade se il progetto dell’esistenza, il senso e lo scopo della vita, vengono minacciati o addirittura non individuati  a causa di un’esistenza ridotta ai soli bisogni ? Come si può immaginare una vita priva di una tensione verso qualcosa che non sia solo la sopravvivenza?
Virginia si pone costantemente questa domanda, mentre il cielo si oscura delle nuvole cupe della guerra. Ora si ritrova in un mondo depredato della sua bellezza. Un brusco risveglio in una realtà che ancor meno le appartiene. Un mondo che sta ingoiando ogni cosa, anche le sue parole.

Meglio tacere, dice la Woolf, meglio inoltrarsi nella “silent land”, la terra silenziosa che sta al posto della  - o forse oltre la - parola, dove tutta l’arte si combina, dove si fondono poesia, pittura e musica, dove le gocce di colore, le parole scritte e le melodie, diventano una cosa sola, dove il significato si dilegua e lascia il posto alla pura emozione che appaga e gratifica.

Virginia Woolf dice “ meglio tacere”. Lo dice, lo scrive. Non si è chiusa nei confini del dolore, ma si è aperta alla vita, alla sofferenza e alla gioia, propria e degli altri, delle persone amate e non solo di queste. 

Virginia Woolf. Una persona per la quale, nel mondo e nel tempo, ogni momento era e doveva essere completamente nuovo e senza precedenti. Non accettò mai nessun genere di routine o di modo comune di intendere la vita. Fino alle ultime estreme conseguenze. Rifiutò ogni genere di clichè; tutto quello che la circondava diventava strano, inesplicabile e tale fu il mondo che creò nei suoi libri. Strano perché visto con un occhio unico, diverso dagli altri….da folle?



"...guardare la vita in faccia,
sempre guardare,
la vita in faccia, sempre
e conoscerla per quello che è
alfine, conoscerla, amarla, per quello che è
e poi metterla da parte
per sempre, gli anni
per sempre, l'amore
per sempre, le ore"


La pazzia era diventata una rappresentazione, conseguente alla decisione di rinunciare alla normalità, di rifiutare il conformismo; un ruolo da recitare, perché la società non accetta la sua disarmante autenticità.
“Ognuno ha il proprio passato chiuso dentro di sè come le pagine di un libro imparato a memoria e di cui gli amici possono solo leggere il titolo.”

Ma sono i pazzi a recitare un ruolo, oppure sono proprio loro che, rinunciando ad ogni ruolo, mostrano se stessi?

Forse la pazzia è da considerare come una dimensione dell'esistenza piuttosto che una malattia. Gli uccelli che cantano in greco non sono i vaneggiamenti di un folle, ma la lucida espressione della sofferenza di chi vuole essere libero di esprimere la propria identità più profonda.

Ma forse questa libertà, questo sentimento umano, il desiderio puro, senza compromessi, di creatori, inventori, poeti, non può essere quel sentimento di mancanza che, a volte, senza spiegazione, abita il nostro animo, ci commuove e che forse, se ascoltiamo bene, ci fa anche sentire gli uccellini cantare in greco.