Se una persona ci dicesse di sentire gli uccellini cantare in
greco, come reagiremmo? Cosa penseremmo? Ci guarderemmo in giro attenti a
cogliere qualche strano suono?
O guarderemmo quella persona con occhi sospetti?
O guarderemmo quella persona con occhi sospetti?
Il mondo non ha tempo per pensare. Deve agire. E per agire,
muoversi nei meandri di una realtà in continuo movimento, deve rapidamente,
senza troppe riflessioni, prendere posizioni chiare e nette rispetto agli
eventi, persone e situazioni che la realtà stessa gli pone davanti. E così dobbiamo immediatamente decidere tra il bene e il male, il
buono e il cattivo, il sano e il malato, il capace e l’incapace, l’integrato e
il disadattato e così via.
Ed ecco quindi che, come direbbe Pirandello, la persona in
questione prende una forma, che le viene affibbiata dal mondo, e non riesce più
a staccarsela di dosso.
Se poi questa forma riguarda lo stato mentale di una persona, ogni
azione che da questa verrà messa in atto, sarà sempre per il mondo, e forse
anche per lei stessa, la conferma di quella immagine/giudizio che di essa il
cosiddetto mondo si è fatto.
Ogni atto che risulta incomprensibile per la nostra piccola ed
inesperta, ma arrogante mente, verrà inesorabilmente targato come “follia”.
Figuriamoci poi se una persona nota, di successo, benestante, con
famiglia, intelligente, un giorno decidesse inspiegabilmente di suicidarsi!
Doveva essere pazza, senz’altro depressa, malata mentalmente. Nessuno pensa che
ci possiamo trovare di fronte ad una persona unica, straordinaria, che vede ciò
che nessuno può vedere, sente ciò che nessuno può sentire, agisce come nessuno
può agire.
E se esistessero veramente gli uccellini che cantano in greco? Ma
forse a furia di vedere reazioni preoccupate o terrorizzate da questo
comportamento, anche questa persona visionaria comincerebbe a pensare di essere
malata, depressa, mentalmente instabile. E anche arrivare all’estreme
conseguenze, leggendo se stessa e la realtà come la leggono gli altri.
Ma forse dentro di noi, almeno di chi non si accontenta delle
facili e tranquillizzanti risposte, potrebbe rimanere forte e chiaro il dubbio:
e se esistessero veramente gli uccellini che cantano in greco?
Questo tipo di domande ce le potremmo e forse dovremmo porre per molti
artisti che la Storia ha liquidato facilmente come malati. Tra essi un caso
particolarmente anomalo. Virginia Woolf.
Una donna, un genio della letteratura, che si è messa nelle
tasche, insieme a pesanti
pietre, i segreti che solo lei aveva potuto vedere, e
li ha portati con sé, nel profondo delle acque di un fiume. Lasciando noi qui,
perplessi e sgomenti, ad osservare il suo bastone ed il suo cappellino, lasciati
sulla sponda di quel fiume.
E’
il 28 marzo 1941. Nell’acqua del fiume Ouse, vicino alla sua casa di campagna,
si uccide Virginia Woolf, uno dei più importanti personaggi della letteratura
del XX secolo. La sua vita si conclude nell’acqua, con quel ritorno simbolico
all’abbraccio materno. Era stata infatti proprio la morte della madre, avvenuta
quando Virginia aveva 13 anni, a determinare la sua prima grande crisi
depressiva.
Anche
i primi ricordi della sua giovinezza
privilegiata sono legati all’acqua: il mare della Cornovaglia, dove passava
felicemente l’estate; e poi “Le onde”, l’opera che l’ha portata al successo. Un
romanzo intessuto di monologhi interiori, come onde in continuo fluire e
rifluire, secondo quel flusso di coscienza, che si era fatto stile. Il suo
stile. Scrisse una volta:
"La vita è molto
solida o molto instabile? Sono ossessionata da questa contraddizione. Dura da
sempre, durerà sempre, affonda giù fino alle radici del mondo, quest'attimo in
cui vivo. Ed è anche transitorio, fuggevole, diafano. Passerò come una nuvola
sulle onde",
Tra
il mare dell’infanzia, le onde del successo e il fiume della morte, si dipana
la vita di Virginia. Una vita “liquida”, appunto, come l’acqua, in costante
mutamento, sempre imprendibile, con cambi di forma e di colore, a seconda degli
spazi, degli eventi e delle persone con cui entrava in contatto.
Ed
è così che nasce il mito: Virginia Woolf, il genio malato.
Ma che rapporto c’è tra malattia
mentale e la sua accanita creazione artistica? Come si relazionano queste due
Virginia, questi due aspetti della Woolf?
Per Virginia Woolf la
malattia è fertile; senza sfuggirle si lascia prendere e trascinare nei suoi
oscuri abissi. Gli uccelli cantano in greco: "il greco è una lingua che mi
piace, ma non in gola agli uccelli. E il re Edoardo, perché urla quelle
parole oscene? E la madre, perché torna come il fantasma di re Amleto a
rimproverarla? E perché viene quella voglia tremenda di morire? E’ questa la
follia?"
Ma è la sua forza
produttiva generata dalla sua malattia? O forse è la sua pulsione creatrice,
vivere in un’altra realtà, che genera questa condizione? Quale la causa e quale l’effetto?
Virginia Woolf
trasforma la sua condizione di malattia nell’“inevitabile” strumento per il suo
desiderio di scrivere. Cerca in tutti i modi di indagare la sua angoscia,
questa presenza straniera che la espelle dalla vita.: una condizione in cui
l’io è preda di un fantasma che viene dal di dentro. Quando è “pazza”, Virginia
lo subisce. Quando è sana, ne scrive.
Virginia vuole vivere
e vuole scrivere: per fare questo sceglie di allearsi con il nemico: "Soltanto lo scrivere controlla la mia
personalità; nulla è completo se non scrivo"
Forse anche per questo non ha mai voluto farsi curare. Negli anni con il marito Leonard ha scelto di curarsi così: latte, burro, silenzio e riposo. Avrebbe potuto rivolgersi ai più eminenti dottori, ha conosciuto anche Freud, ma non lo ha fatto. Vuole comprendere quella parte della sua anima, non vuole analizzarla, ma conoscerla. Non andrà mai a raccontare ad uno sconosciuto i suoi deliri. Sono troppo preziosi. Li ha raccontati però a noi, il suo pubblico.
Forse anche per questo non ha mai voluto farsi curare. Negli anni con il marito Leonard ha scelto di curarsi così: latte, burro, silenzio e riposo. Avrebbe potuto rivolgersi ai più eminenti dottori, ha conosciuto anche Freud, ma non lo ha fatto. Vuole comprendere quella parte della sua anima, non vuole analizzarla, ma conoscerla. Non andrà mai a raccontare ad uno sconosciuto i suoi deliri. Sono troppo preziosi. Li ha raccontati però a noi, il suo pubblico.
Per Virginia Woolf la malattia diventa parte della sua vita. “Se non vivessimo audacemente, prendendo il
toro per le corna e tremando sui precipizi, non saremmo mai depressi, senza
dubbio; ma già saremmo appassiti, vecchi, rassegnati al destino”.
Ma che cosa accade se il progetto dell’esistenza, il senso e lo
scopo della vita, vengono minacciati o addirittura non individuati a causa di un’esistenza ridotta ai soli
bisogni ? Come si può immaginare una vita priva di una tensione verso qualcosa
che non sia solo la sopravvivenza?
Virginia si pone costantemente questa domanda, mentre il cielo si
oscura delle nuvole cupe della guerra. Ora si ritrova in un mondo depredato
della sua bellezza. Un brusco risveglio in una realtà che ancor meno le
appartiene. Un mondo che sta ingoiando ogni cosa, anche le sue parole.
Meglio tacere, dice la Woolf, meglio inoltrarsi nella “silent
land”, la terra silenziosa che sta al posto della - o forse oltre la
- parola, dove tutta l’arte si combina, dove si fondono poesia, pittura e
musica, dove le gocce di colore, le parole scritte e le melodie, diventano una
cosa sola, dove il significato si dilegua e lascia il posto alla pura emozione
che appaga e gratifica.
Virginia Woolf dice “ meglio tacere”. Lo dice, lo scrive. Non si è
chiusa nei confini del dolore, ma si è aperta alla vita, alla sofferenza e alla
gioia, propria e degli altri, delle persone amate e non solo di queste.
Virginia
Woolf. Una persona per la quale, nel mondo e nel tempo, ogni momento era e
doveva essere completamente nuovo e senza precedenti. Non accettò mai nessun
genere di routine o di modo comune di intendere la vita. Fino alle ultime
estreme conseguenze. Rifiutò ogni genere di clichè; tutto quello che la
circondava diventava strano, inesplicabile e tale fu il mondo che creò nei suoi
libri. Strano perché visto con un occhio unico, diverso dagli altri….da folle?
"...guardare la vita in faccia,
sempre guardare,
la vita in faccia, sempre
e conoscerla per quello che è
alfine, conoscerla, amarla, per quello che è
e poi metterla da parte
per sempre, gli anni
per sempre, l'amore
per sempre, le ore"
"...guardare la vita in faccia,
sempre guardare,
la vita in faccia, sempre
e conoscerla per quello che è
alfine, conoscerla, amarla, per quello che è
e poi metterla da parte
per sempre, gli anni
per sempre, l'amore
per sempre, le ore"
La pazzia era diventata una rappresentazione, conseguente alla decisione di rinunciare alla normalità, di rifiutare il conformismo; un ruolo da recitare, perché la società non accetta la sua disarmante autenticità.
“Ognuno ha il
proprio passato chiuso dentro di sè come le pagine di un libro imparato a
memoria e di cui gli amici possono solo leggere il titolo.”
Ma sono i pazzi a recitare un ruolo, oppure sono proprio loro che, rinunciando
ad ogni ruolo, mostrano se stessi?
Forse la pazzia è da considerare come una dimensione dell'esistenza piuttosto che
una malattia. Gli uccelli che cantano in greco non sono i vaneggiamenti di un
folle, ma la lucida espressione della sofferenza di chi vuole essere libero di
esprimere la propria identità più profonda.
Ma forse questa libertà, questo sentimento umano, il desiderio puro, senza
compromessi, di creatori, inventori, poeti, non può essere quel sentimento di
mancanza che, a volte, senza spiegazione, abita il nostro animo, ci commuove e che
forse, se ascoltiamo bene, ci fa anche sentire gli uccellini cantare in greco.
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