lunedì 19 dicembre 2011

George Sand - La sorella di Goethe


Uomo o donna ? Angelo o demone ? Paradosso o verità ? Quale enigma è quest’uomo! Quale fenomeno è questa donna!
George Sand viene definita “femmina” quando nasce a Parigi il primo luglio 1804 avendo le caratteristiche inequivocabili di un corpo femminile. Per confermare il suo status di fanciulla le viene dato il nome di Amantine Aurore Lucile Dupin.

La piccola Aurore crede nei fantasmi e negli spiriti del fantastico universo contadino. La vediamo  correre a perdifiato nel cuore del bosco, dove ha costruito un piccolo altare dedicato alla sua divinità personale, che lei chiama Corombè. Ad essa porge preghiere e sacrifici. Volge il suo sguardo fremente e la sua voce implorante al suo dio pagano, esigendo una risposta. Ma la risposta non giunge e non le resterà che cercarla, per tutta la vita, con le sua indomabile volontà, attraverso l’amore, l’arte, la politica. 

Uomo o donna? Angelo o demone?  Da ragazza già trascorre lunghe ore in sella alla sua cavalla, si veste da uomo e  fuma. Si sposa a 18 anni per sua scelta con un uomo decisamente sbagliato che disprezza libri e musica, e ama la caccia. Da questo signore ha comunque due figli.
Inizia una lunga serie di rapporti più o meno sentimentali e più o meno importanti: il poeta De Musset, il pittore Delacroix, il musicista Chopin e tanti altri. Attività che porterà avanti per tutta la vita. Al punto che dirà di sé: “Non sono mai stata più di tre giorni senza far l’amore”. 
Come un ragno tesse la sua fitta tela intorno a sé e che fa sì che tutti ne siano catturati.

All’età di 27 anni lascia marito, figli e il castello di Nohant. Si trasferisce a Parigi. Scrive il suo primo romanzo, “Indiana”, ed ecco che nasce George Sand, il suo pseudonimo.
Chi mai avrebbe accettato di pubblicare un romanzo scritto da una donna?

Forza in eccedenza. Tutto in lei esce dai confini, come un fiume in piena che tracima, e invade campi, case, viali, piazze. La sua intensa vitalità ci attrae come un vortice. Le grandi personalità ci affascinano ma ci spaventano anche, così spesso preferiamo nasconderci, per non esserne schiacciati. Sono esseri la cui vicinanza è scomoda ed insieme esaltante. Certo, potremmo soccombere, ma forse anche…. cominciare a vivere, lanciati in alto insieme alle stelle.

George Sand vuole tutto, divora tutto e tutti. Ma lei è una donna, e le donne non possono volere tutto. Le donne sono destinate al sacrificio, all’abnegazione per il marito, i figli.
L’uomo che segue i suoi bisogni, fisici e intellettuali, è un eroe che compie una lotta titanica tra spirito e corpo; la donna con un comportamento simile non è altro che una sciocca sgualdrina, con velleità artistiche.
Per la propria libertà bisogna combattere, mettersi in gioco, rischiare la propria reputazione, a volte, la galera stessa. Bisogna essere contro e George, lei assolutamente sì, è una donna contro.

"E’ molto più facile accusare una donna di frigidità, che provare a procurarle del piacere. Ciò che l’uomo vuole è una puttana. Alla donna non resta altro che scegliere tra la rassegnazione e il suicidio".

"Elenco di  tutti i diritti che il matrimonio accorda all’uomo, negandoli alla donna:
  • diritto di adulterio fuori del domicilio coniugale,
  • diritto di omicidio della moglie infedele,
  • diritto di educare i propri figli ,
  • cacciare i parenti della moglie ed imporre i propri.       
Le donne non contano in campo sociale e neanche in quello morale! Lo giuro!! Solleverò la donna dalla sua abiezione, nella mia persona e nei miei scritti. Dio mi aiuterà!"

La sua lotta per la libertà ha una caratteristica fondamentale: L’amore. L’amore romantico e passionale, l’amore per i boschi, le acque, per lo spirito della natura, amore per il divino. Cerca e dà amore e bellezza, energia e poesia…. anche ascoltando, devota ed estasiata, la musica di Frederic Chopin. Il pallido e fragile Chopin.
"Tu non sei malato. Devi solo essere più forte. Prendi la mia forza, io ne ho troppa!"
George non si ferma mai. Da mezzanotte alle sette del mattino, scrive  romanzi, novelle, drammi teatrali, articoli di giornale, lettere, diari personali. Quattro o cinque ore di sonno e riprende i suoi studi, la ricerca, la pittura di acquarelli, il disegno, l’attività politica, l’educazione dei figli, i suoi accoglienti salotti, e ancora cucire i costumi per le marionette; confezionare deliziose marmellate.

Chopin, tutta la forza che ha, la dedica esclusivamente all’arte, si danna  l’esistenza alla ricerca della melodia perfetta,  e quando compara la sua ricerca sofferta delle note giuste alla ricerca di lei delle parole giuste, George risponde: "Io non ho bisogno di soffrire per l’arte, io soffro abbastanza per la vita".

La sua opera letteraria, un’opera ricchissima e geniale, un fiume in piena di immagini, sentimenti, personaggi con un’intensa vita del corpo e dell’anima, come lei. Le eroine dei suoi romanzi. Donne intelligenti, colte, evolute con qualità morali che le elevano al di sopra del mondo..

L’arte e l’amore sono per lei uniti allo spirito religioso. In uno dei suoi primi romanzi, Lélia, i personaggi si fanno carico del dolore dell’intera umanità. Proprio attraverso la prova del dolore, della separazione e della perdita, gli eroi dei suoi romanzi superano se stessi per fare esperienza di una dimensione cosmica. In uno dei suoi romanzi farà dire al personaggio:

"Mi sembrava di stare crescendo, elevandomi sino agli astri. Li toccavo, palpitavo delle loro fiamme. Tenevo il mondo e il mio cuore nel palmo delle mani, ero forte come Dio e felice come l’infinito. Provavo il sentimento chiaro, inebriante e grandioso della bellezza e della bontà eterne e infinite".
Il regno di Dio è uno stato interiore,  è coscienza del bene e del bello. E’ amore.

George Sand sogna, attraverso le sue opere, di nobilitare il popolo. Idealizza i suoi contadini, che considera poeti: il contadino vive nel “meraviglioso”. La sua musica, le sue favole e le sue leggende. Ma l’immaturità di quel popolo emerge nei moti del ’48. O ignorante e apatico o violento e poco lucido. Il popolo rimane sempre popolo, se è fatto di uomini che in esso si nascondono.

Quando il suo amico e ammiratore Flaubert si lamenta, amareggiato, del popolo, George si irrita di questa mediocre tristezza. Così monta a cavallo e non si stanca di percorrere la sua Vallée Noire, l’ambiente preferito dalle eroine dei suoi romanzi.
Perché quelle sfrenate corse a cavallo, nei boschi? Cosa rincorre? Da cosa scappa? Forse da quella assurda e soffocante realtà fatta di formalismi, di piccoli pensieri, di piccoli mondi. Scappa dalla vigliaccheria, dalla paura e dagli scrupoli, dai rimpianti, dalla stupidità, dalla tristezza!

"Noi tutti, felici e infelici, amanti e sognatori, sogniamo qualche esilio poetico e andiamo a cercare un nido per amare o un rifugio per morire"

Nell’autunno della sua vita George Sand si ritira nel suo rifugio di Nohant:  “E’ il momento di raccogliersi, di obbedire al proprio sentimento individuale, di sfuggire all’ebbrezza collettiva e di esprimere ciò che si ha dentro isolandosi da ogni influenza esterna”.

Scrive al suo amico Alessandro Dumas: "Oggi compio 64 primavere. Non ho ancora avvertito il peso degli anni. Cammino tanto, lavoro tanto, dormo altrettanto. La mia vista è affaticata…Si perde tanto tempo e si sperpera tanta vita a vent’anni. I nostri giorni d’inverno valgono doppio. Ecco la nostra ricompensa”.

Quando si perde tempo? Quando si sperpera la vita? Cosa facciamo di così meritevole e degno da farci dire che la nostra vita è ben spesa?

George Sand si spegne tra la consegna di un nuovo romanzo e il lancio di una nuova rivista, tra una corsa a cavallo e la preparazione di squisite marmellate di prugne.

George Sand, chiamata “la sorella di Goethe”, non vuole essere un modello di vita. Il suo più grande insegnamento è il suo modo di viverla. Viverla fino in fondo, a dispetto di tutto e di tutti, con forza ed energia, con entusiasmo e spirito creativo. Lasciando al mondo comune bisognoso di certezze, il compito di catalogare questo personaggio, di risolvere l’enigma: uomo o donna? Angelo o demonio?
O forse semplicemente un ragno……..
Ma sappiamo come fa un ragno a costruire la sua tela?  Il ragno prepara il suo filo interiore. Poi si lancia nel vuoto in "caduta libera", durante la quale emette un filo di tela, che condurrà fino al punto desiderato. E da lì un altro lancio ancora nel vuoto fino a creare la sua rete.
E noi? Noi che vorremmo costruire la fitta tela della nostra vita, ricca di emozioni, avvenimenti, conquiste… noi, abbiamo il coraggio di lanciarci in caduta libera?

Ma non è questione di coraggio, ma pura necessità, la necessità di sentirsi vivi, che farà dire a George Sand: "Meglio sentire dolore, che non sentire nulla".                          

giovedì 8 dicembre 2011

Apocalypse Now - La grandezza della fine


Esistono storie che hanno la valenza dell’archetipo, le cui strutture di fondo percorrono le arti di ogni tempo (e forse di ogni luogo), variando infinite volte negli aspetti esteriori eppure restando aderenti al modello d’origine; e sono, queste, le storie che riescono a descrivere i momenti eterni, diremo così, dello spirito umano. Fra questi ultimi risultano fondamentali – al punto quasi da comprendere tutti gli altri – il gesto della ricerca e il moto di tensione insoddisfatta che vi sta alla base, i quali rimandano al carattere transitorio e incompiuto dell’esistenza come pure all’ansia, destinata a sua volta a rimanere inappagata, di captarne il senso.
Questa tensione insoddisfatta, questa inquietudine ha spesso trovato la sua manifestazione letteraria ed artistica nella metafora del viaggio.

Ed ecco che questo film, “Apocalypse now”, notoriamente conosciuto come un film di guerra, ambientato nella guerra del Vietnam, sia di fatto invece la storia di un viaggio. Un viaggio che, come spesso accade, è anche un viaggio di formazione, attraverso le avventure e disavventure, ma soprattutto gli incontri, o meglio, “l’incontro” di due personaggi al limite dell’umano. Oppure come diremmo oggi più semplicemente, un po’ “anormali”.
Apocalypse now. Un viaggio in fondo all’Uomo, forse più come l’Odissea. Dove le metafore ed i simboli della vita, dei suoi percorsi, delle sue tragedie, dei suoi incontri, delle sue stesse contraddizioni, sembrano portate da questo fiume che percorre, inesorabile come il passare del tempo, il più o meno lungo tracciato della nostra esistenza.

Apocalypse Now è liberamente ispirato al romanzo di Joseph Conrad "Cuore di tenebra".
Un film che forse come pochi altri, dovrebbe farci riflettere veramente a lungo. Se riusciamo, come non molti, a non vederne solo le immagini atroci di quella guerra spietata che è stata il Vietnam (ma c’è qualche guerra che non è spietata?).
Le riflessioni che il film ci offre sono infinite, come le grandi storie e metafore di viaggi e di lotte.

I grandi temi in esso contenuti sono i temi della vita e dell’Uomo, non della guerra. I due personaggi principali: Willard e Kurtz, sono le due facce della grandezza dell’uomo. Entrambi uomini ai margini della realtà, scomodi e incompresi. Scomodi e incompresi perché la grandezza fa male a chi è piccolo e spaventato dalla vita, e vive come un topo nell’angolo buio della sua normalità.
La parte saliente del film, ossia quella che rende diverso Apocalypse Now da un film prettamente didascalico sulla guerra del Vietnam, oltre alla stessa impostazione del film, che mette la guerra sullo sfondo, concentrandosi solo sul protagonista, è l’incontro tra il capitano Willard e il colonnello Kurtz, incontro carico di toni epici e misteriosi. Kurtz, un monumentale Marlon Brando, ripreso in penombra, sembra qualcosa di più e di meno di un essere umano. Egli spiega, tra le righe, la sua filosofia: occorre uccidere, distruggere e mutilare, anche donne e bambini, se la causa è giusta.

Marlon Brando nel ruolo del Colonnello Kurtz
Il colonnello, che si è macchiato dei delitti più terribili, lo ha fatto per seguire fermamente il suo ideale, senza lasciarsi corrompere come gli altri militari o gli stessi membri del governo, che uccidono come fa il colonnello Kilgore, facendo insensate stragi, e poi si preoccupano di condannare lui come omicida (accusa quasi assurda nel bel mezzo della guerra del Vietnam).

È dunque un eroe o un pazzo sanguinario? Willard cerca di capire la vera natura di Kurtz, ma più si avvicina a lui e più sente di condividere le sue idee, pur notandone l’evidente follia: Kurtz si crede onnipotente, perde di vista il limite umano. Deve, e vuole, essere distrutto.
Qui si scorge il contributo di James Frazer, antropologo che scrisse a proposito delle origini del mito e della religione nelle diverse civiltà umane. È palese la sua influenza dal legame che ha con il lavoro di Joseph Conrad e da un’inquadratura del film, nella quale si vede il più importante saggio di Frazer, Il Ramo d’oro.
Frazer descrive come in molte civiltà primitive è facile per gli indigeni vedere in un essere umano un dio, e credere ciecamente in lui, obbedendo ad ogni suo ordine (esattamente come i montagnard fanno con Kurtz). Leggendo Frazer, la scena finale di Apocalypse Now diventa più comprensibile: quando l’uomo-dio manifesta i primi sintomi di cedimento e di prossima morte o malattia, per evitare che lo spirito divino fugga e sparisca per sempre, portando sciagura sull’intero popolo, è necessario che egli venga ucciso, trasferendo il potere nelle mani dell’omicida, il quale diventa il nuovo dio. Kurtz era malato, e aveva trovato un efficace espediente per evitare che gli indigeni lo uccidessero: essi, per placare la loro insofferenza e preoccupazione, nei momenti in cui Kurtz stava male, praticavano sacrifici animali.
Ciò è chiaro nella scena dell’assassinio: Kurtz morente viene associato al bufalo sacrificato dagli indigeni (tra i quali balla forsennatamente anche Lance). Willard, dopo aver ucciso il colonnello esce dal suo rifugio e viene accolto dalla folla dei montagnard come un dio: essi si inchinano davanti a lui in silenzio.

Il regista, Coppola, spiega il suo ragionamento sul bene e sul male: un uomo che ha la possibilità di portare molto avanti il suo potere, può darsi che non riesca a fermarsi in tempo, e ad individuare il confine fra la propria anima ancestrale, violenta e amorale, e quella civile, perdendo di vista la possibilità di convivere con gli altri, se sono più deboli. E non è un caso, sembra dire Coppola, che questa filosofia venga normalmente applicata a quella guerra talmente sciagurata da confondere e stravolgere tutti gli aspetti della morale non solo americana, ma di tutto il mondo.
La luce gioca un ruolo fondamentale nel film: il suo taglio netto luce/ombra colloca i personaggi, che sempre vivono un dramma interiore, nella dimensione della tragedia imminente. Essi agiscono su un palco creato appositamente per loro, marionette i cui fili sono tirati dal crudele ed incorruttibile fato. Questo sembra essere chiaro: nessuno ha la facoltà di decidere del proprio destino, il libero arbitrio è solo una facoltà che ci illudiamo di avere.
E quel colonnello Kurtz, così gigantesco nel compimento di un destino già scritto, sa che non basta uccidere e massacrare per dimenticare la propria anima malata. Non serve la poesia, non serve la follia, non serve nascondersi nelle ombre e mostrare solo quello che si vuole.
La morte è l’unica amica nel mondo da incubo del Vietnam, in cui tutto è grottesco nella sua crudeltà. L’unica cura è la morte, che porta lontano da tutto l’orrore alienante della guerra.
Contrasta col titanismo eroico di Kurtz il piccolo capitano Willard, un Martin Sheen struggente, un uomo stanco che vive in un incubo. Divorato dai suoi demoni, agisce e vive senza crederci veramente. Il suo senso morale, o quello che ne resta, lo spinge a compiere la sua missione, ma la sua mente gli grida di scappare. Kurtz e Willard, due facce della stessa medaglia, l’uno lo specchio dell’altro, due uomini ormai a metà, ognuno dei quali ha nei confronti della propria mente un solo dovere: quello di non impazzire.

Willard e Kurtz impattano con i grandi temi dell’esistenza: il bene e il male, la verità, il senso, il rapporto col mondo, l’orrore che ne consegue, la fine.
La “fine”. Il leit-motiv del film, e più o meno direttamente, di ogni opera d’arte. Un film sulla fine, come testimonia subito la scelta della canzone di Jim Morrison nella scena iniziale. Ma ci sono altri momenti che ci parlano della fine. In una sequenza poi tagliata, un bimbo cita l’Albatro di Baudelaire. Kurtz è come l’albatro, precipitato in un mondo orribile e costretto a vivere in quello stesso mondo che lo deride e lo considera folle. Non può più volare, e allora si rifugia ai suoi confini, nell’attesa consapevole della fine. E ancora, abbiamo il testo di Eliot che Kurtz legge, “Gli uomini vuoti”, introdotta da un’epigrafe che dice “Mistah Kurtz…è morto”, citazione che Eliot trae proprio da Conrad. Nel film Kurtz legge un testo che inizia con l’annuncio della sua morte.

"Siamo gli uomini vuoti
Siamo gli uomini impagliati
Che appoggiano l'un l'altro
La testa piena di paglia. Ahimè!
Le nostre voci secche, quando noi
Insieme mormoriamo
Sono quiete e senza senso
Come vento nell'erba rinsecchita
O come zampe di topo sopra vetri infranti
Nella nostra arida cantina
Figura senza forma, ombra senza colore,
Forza paralizzata, gesto privo di moto;
Coloro che han traghettato
Con occhi diritti, all'altro regno della morte
Ci ricordano - se pure lo fanno - non come anime
Perdute e violente, ma solo
Come gli uomini vuoti
Gli uomini impagliati"

Kurtz (quello cinematografico), in pratica, per un gioco di riferimenti, legge il suo stesso epitaffio, rendendo ancora più chiara la consapevolezza della sua fine. Eliot definisce spesso gli uomini contemporanei dei ''morti in vita''
Già, i morti in vita. Nel racconto di Conrad, Kurtz lascia scritto: “Sterminate tutti i bruti”. Marlon Brando lascia scritto: “Sterminateli tutti”. Tutti chi? I bruti? Chi sono i bruti? Nel mondo di Kurtz, non sono forse tutti bruti, americani, selvaggi, vietcong (e forse anche noi)? Non si salva più nessuno?
Inevitabile è il richiamo ad uno degli ultimi scritti di Baudelaire, l’invocazione al Colera di sterminare tutta la popolazione: “Oggi lunedì 28 agosto 1865, in una serata calda e umida, ho vagato attraverso i meandri della città e ho sorpreso con gioia viva, sospesi nell’aria, frequenti sintomi di colera. L’ho abbastanza invocato, questo mostro adorato, questo Attila imparziale, il flagello divino che non sceglie le sue vittime?” 
Perché questa richiesta di sterminio? Si sta forse evocando un’altra Shoah? Oppure davanti agli occhi di Kurtz appare l’orrore del mondo in essere, e lancia una specie di preghiera, affinché si cancelli questa modalità dell’esistere, togliendone ogni traccia e radice, per aprire la strada ad un uomo nuovo, mosso da visioni nuove, intenzioni nuove, idee nuove?
Ma cos’è questo orrore che Kurtz vede e che forse noi non vediamo (o meglio non vediamo più, perché forse ce ne siamo abituati)? Ne è testimonianza tutta la sequenza del colonnello Kilgore, che è impegnato ad osservare la qualità delle onde per il surfing, mentre stanno massacrando villaggi, con donne e bambini. Non esitando a “ripulire” col napalm la foresta, per poter finalmente usare la sua tavola da surf. Certo tutto ciò è molto distante da noi. Ma basta aprire un giornale, per scoprire che non è poi così vero.

Allo stesso tempo Coppola ci vuole parlare, attraverso Kilgore, del tema della paura. Sotto un inferno di colpi di armi da fuoco, mentre tutti scappano, si buttano a terra, si riparano, lui rimane in piedi, totalmente indifferente del pericolo, sempre più determinato nella sua intenzione. Che la paura faccia succedere quello che temiamo? Che se c’è qualche desiderio, determinazione, obiettivo, più forti della paura, molti degli ostacoli o rischi possibili, svaniscono davanti a noi.

L’orrore….E’ la frase che Kurtz pronuncia prima di morire. Che cos’è l’orrore? La guerra? Il Vietnam? La violenza? Willard, tramite Kurtz, scopre che l’orrore non è fuori di noi, ma dentro di noi: nelle trite parole che abbiamo, nelle parole di ogni giorno, quelle parole che non vale nemmeno la pena di ripetere tanto sono ripetute. Nella nostra illusione di essere vivi e originali, nella nostra rassegnazione di fronte a capi, al potere, radunandoci come pecore ed inchinandoci davanti al vecchio o nuovo capo, prima Kurtz, poi Willard.. Bisognosi di qualcuno che pensi per noi, che ci dica come e perché vivere.

Ed ecco Willard, l’altra faccia della grandezza. Il viaggiatore. Colui che agisce. Colui che cerca, colui che scende nell’inferno dell’Uomo alla scoperta del suo stesso io e della possibile (o impossibile) verità. L’uomo chiamato ad uccidere quella parte della natura umana, non conforme, ribelle, irrazionale, forse pazza e pericolosa, rappresentata da Kurtz...ma rimanendo lui stesso contaminato da tale forza sovrumana.
Martin Sheen, il Capitano Willard
Willard incontrerà Kurtz, e lo ucciderà, ma non dopo aver conosciuto e visto il mondo di Kurtz. Quando il capitano Wilard viene mandato a uccidere Kurtz perché è diventato "insano", scopre che questa malattia è la malattia che si genera dal cuore stesso del potere che l'ha spedito ad ammazzare Kurtz, e che in realtà Kurtz e lui stesso nascono da questo cuore malato della civiltà. Ma di questo non potrà parlare, quando dopo il viaggio tornerà nella città. Per scoprire la verità del vuoto e dell’orrore bisogna fare il viaggio, non si può sperare che qualcuno ci parli e ci strappi dal nostro “inganno consueto”.

Gli eventi drammatici di questo inizio di millennio, che nell’immaginario collettivo era visto come l’essenza del progresso fantascientifico, vedono gran parte dell’umanità alle prese con gli stessi problemi di sempre: guerre, fame, contrasti e povertà. Sembra che una nube nera di ignoranza e avverso destino aleggi sopra i popoli, imprigionandoli nella spirale senza uscita della violenza, verso se stessi e verso gli altri, lontani dal benessere che questo pianeta potrebbe permettere.
Raramente la letteratura è riuscita ad esprimere una attualità di contenuti e di strumento linguistico così estesa nel tempo come nel caso del racconto Cuore di Tenebra di Conrad.
L’intuizione di Coppola di poter trasferire questa attualità in un diverso linguaggio valeva certo la pena dello sforzo enorme, umano e finanziario per la realizzazione del film, e gli rende gran merito. L’arte autentica evidentemente è come l’acqua, l’elemento che può scorrere e nutrire oltre il tempo e lo spazio.
Per concludere sarà proficuo soffermarsi sulle parole di Kurtz alla fine di Apocalypse Now, là dove si teorizza la superiorità dei soldati vietcong, capaci di coniugare l’alta moralità, l’amore, con l’istinto bellico più feroce. Maturerà allora, forse, la constatazione che pace e guerra, gloria e polvere, sogno e incubo sono momenti opposti, ma tragicamente coesistenti ed eterni, nella realtà dello spirito umano.