lunedì 26 settembre 2011

La Realtà Ultima (del Teatro)

Beckett e Ionesco recitano Specchi e Memorie
”L’Ultimo Cielo” -  regia: Massimo Giannetti; Teatro Specchi e Memorie, Milano, Italia
Saggio del critico teatrale Zoran Popovic’ – Belgrado 

Il poster che annuncia “l’Ultimo Cielo”, uno spettacolo di teatro molto particolare di Specchi e Memorie, sembra essere il tocco di  un progettista, l’introduzione emozionante che apre le porte ai lati semanticamente più complessi dell’opera; mostra un'immagine quasi surreale, in delicati colori pastello, presa in un soleggiato mattino di primavera, di una tomba con scritte le seguenti parole: “Sconosciuto Uomo - 26 gennaio 2009. Si tratta, in verità,  di un’autentica foto-documento che rivela la realtà (l'implacabile, crudele, realtà teatrale),  una metafora che l’arte utilizza come suo tema dominante.
Un uomo completamente sconosciuto, perso, lasciato solo al mondo, trovato e messo a riposare, alla fine diventa una persona,  parte di un  testo, di una partitura musicale-poetica, di una commedia sulla fine, sul riconsiderare la fine  (del teatro e di noi in esso), prima di aspettare che la vera fine arrivi. “L’Ultimo Cielo” è una tranquilla, malinconica, dolorosa, dolce e dura, lucida e spiritosa, e al tempo stesso seria, profonda e complessa consacrazione  (teatrale e umana) della fine.  

All'inizio, sembra che lo spettacolo cominci come una sorta di nota a piè pagina, evocando Beckett  in “Aspettando  Godot”. Nel pezzo originale del grande scrittore e visionario, i suoi eroi Estragone e Vladimiro sono comunque e ancora in attesa di colui che sicuramente non verrà, (“ma, nonostante, forse, domani?”).

Gli eroi della drammaturgia di Massimo Giannetti sono gli attori-persone Daniela Damiani e Saverio Fiano, un archetipo drammatico, teatrale della coppia, condannati a stare insieme, ma sempre soli, vuoti, fedeli ed estranei, gettati ad assaporare il  beckettiano gioco di aspettare e cercare, mentre non aspettano più nulla, perché non c'è nulla da aspettare, nemmeno in un entusiasmo assurdo, in un desiderio utopistico. Allo stesso tempo, queste persone-di-teatro post beckettiane, altrettanto confuse e coscienti, sembrano essere immerse in un dramma di meraviglia vano, come se scritto e colorato da un pensiero  fragile, da una frase grottesca di Ionesco. Un vuoto e buio  metafisico quasi tangibile è avvolto in una ripetizione senza speranza dove,  in un “finale di partita”, stiamo ancora cercando una  soluzione, una riconciliazione con noi stessi e dentro noi stessi, nel bel mezzo del mondo-teatro incomprensibile, cercando ancora di pronunciare la parola indicibile che, alla fine di tutte le fini, sembra “un‘inutile macchia sul silenzio e sul nulla.

Lo spazio scenico è  un particolare angolo della realtà, chiuso e isolato dal rumore, dalla realtà ufficiale dove non succede nulla se non l'annuncio di un epoca moderna 'nuova': lo spazio, questo giardino orribile, è sia il palcoscenico del teatro recitato, sia lo spazio interiore di colui (uomo-attore) che incarna  lo stesso dramma. 'Un giardino per osservare all'interno', che offre una vista sulle diverse messe in scena del reale. Il teatro, anche questo, un personale tipo di teatro, che continua a rimanere  uno spazio delle “domande in azione”e contiene alcune delle antiche ricerche proustiane: il tempo perduto, il desiderio primordiale di recuperarlo, di sospenderlo per un po', di sentirlo, e in quell’attimo, nella molteplice vista magica dello specchio, vedere l'aspetto originale del reale che  riguarda l'uomo e l'umano in lui.
La complessità dell'essenza del teatro è legata al puzzle irrisolvibile dell'essere stesso di un attore / uomo: la quantità di  spazio che il teatro occupa nella nostra vita (questa è una questione sia dell’attore che del suo complice, lo spettatore).
Cosa si nasconde e cosa si rivela negli specchi e nelle memorie di coloro che vivono e creano nel teatro?
L’opera è concepita come un viaggio all'interno di uno spazio determinato, limitato, ma che porta verso qualcosa di sconosciuto: da una parte all'altra del Teatro, alla seducente presunzione di ciò che realmente è: c’è così poca luce e alcuni dubbi, contraddizioni, domande e idee incomplete, sogni che svaniscono nel vuoto. Si tratta di una meditazione sul teatro e sulla vita nel loro insieme, che porta “al di là del mondo comprensibile, al di là del buio della memoria, immagini di voci antiche, frasi rotte".

Ciò che si rivela è una spazialità diffusa tra i diversi piani narrativi e frantumi di mondi a cui appartengono, in cui sembra ancora possibile avere un'avventura immaginaria tra il sublime e il banale, tra l’esaltazione e la caduta. L'inesistenza di una trama visibile, le frasi frammentate senza slancio e la potenza della narrazione, l'immaginazione caotica, mettono in primo piano la questione se sia rimasto qualcosa dei vecchi miti circa l'unicità e il potere emancipativo del teatro. L'incontro ravvicinato dell'attore con il suo ruolo sottolinea ulteriormente il problema del rapporto tra il teatro e il mondo: proprio come il teatro non è in grado di nascondersi, separarsi dalla realtà, è altrettanto impossibile per un attore proteggersi e nascondersi dal suo ruolo, o per uno spettatore 'sparire' nel buio del teatro a lungo. Sempre presenti le tracce di questi dualismi, che sono le basi sulle quali Giannetti forma attentamente la drammaturgia degli eventi all'interno di una cornice formale profondamente pensata, attraverso variazioni di stile e composizione; brani poetici selezionati e suggestioni musicali della 'grande arte', che producono ispirazioni da mondi “superiori”, sono seguiti da  un’espressività intonata, da una seducente teatralità della performance degli attori. L'energia della riverifica di sé (rivelazione), mette un freno alla caccia, dopo i ruoli cambiati e i costumi che appartengono loro, un cappello sulla testa: luci brillanti e abili movimenti  non vanno oltre e non dicono, non significano più, dentro la scatola magica del teatro non c’è nulla, eccetto le prove di transitorietà personali e umane. Ci dice ancora  il nostro dramma, che siamo nello stretto passaggio tra il sé come essere umano e il sé come attore - e queste domande vengono poste dagli attori dal fondo del buio del teatro.

Siamo ancora vivi, reali, o anche noi siamo sconosciuti (anche a noi stessi), perduti, uomini beckettiani? 'Qual è la funzione dell’ Arte e del Teatro nel contesto in cui vive l'uomo di oggi?' si chiedono Massimo Giannetti e i suoi attori di fronte ai propri 'Specchi e alle proprie Memorie'. Quali sono le possibilità offerte da questo tempo, com’è la prospettiva futura, cosa vale la pena di dire a teatro? 'Quanto durerà ancora la notte', in cui l'impressione di essere perduti è sempre più forte e l'alienazione da sé e dall'altro è sempre più marcata?
Dice ancora Giannetti: “mentre le speranze stanno morendo come le luci di un bar notturno, in attesa dell'ultimo cielo” cosa è rimasto? Dobbiamo andare avanti, a dire parole finché ce ne sono? 'Non c'è più niente da dire', ha concluso Beckett con saggezza. Tuttavia, la famosa frase che i suoi eroi Estragone e Vladimiro si scambiano, apparentemente assurda, rimane ancora presente: Che cosa facciamo durante l'attesa? La risposta implicita del teatro di Specchi e Memorie potrebbe essere: Recitare (ancora?); Recitare se stessi.
R. Zoran Popović


martedì 13 settembre 2011

Gertrude Stein - La vita come opera d'arte

A volte ci domandiamo come può essere una vita.
A volte ci lamentiamo per come siamo anziché per come avremmo potuto essere. Bellezza, intelligenza, fascino, intensità della vita e dei suoi eventi. Guardiamo un attimo questa donna.
Non certo graziosa, tozza, faccia dura con una espressione arcigna. Chi vorrebbe essere come lei?
E ora guardiamo questo quadro.
Ritratto di Gertrude Stein (1905-1906)
Questa donna, apparentemente insignificante, ha tenuto impegnato l’autore di questo dipinto, un pittore piuttosto famoso, capriccioso  ed impaziente, per oltre 90 sedute per realizzare questa opera, considerata ora una specie di icona di un intero periodo storico. E il pittore piuttosto famoso non era altro che Picasso.
E’ possibile “creare la propria vita”, indipendentemente dalle caratteristiche di cui ci ha dotato la natura? Ed è possibile far sì che non si tratti di una vita qualunque, ma di una vita veramente degna di essere vissuta?
Si potrebbe rispondere in termini scientifici, psicologici o filosofici. Ma pur sempre astratti e teorici. Proviamo invece a far rispondere a tale domanda proprio questa donna apparentemente così poco stimolante, almeno per quelle caratteristiche per le quali normalmente una donna viene apprezzata.

Si parla spesso di “spirito del tempo”. Cioè di quella particolare condizione del momento storico che fa sì che succedano eventi, compaiano persone, si realizzino scoperte, senza alcun diretto legame tra di loro, ma che di fatto sono strettamente connesse ed esprimono il punto di evoluzione a cui è giunto l’uomo in quel tempo. Appunto “lo spirito del tempo”.
Ma quale era lo spirito di quel tempo, agli inizi del ventesimo secolo? Alla formazione di quale spirito del tempo Gertrude Stein ha così significativamente contribuito?
Einstein scopriva la teoria della relatività del tempo, Bergson affermava il concetto di tempo come “durata”, Picasso immetteva la dimensione del tempo nei sui quadri cubisti.
E Gertrude Stein? Lei creava un nuovo modo di fare scrittura e letteratura, rompendo con la forma, distruggendo la trama e trasformando il concetto di tempo, eliminando la punteggiatura che scandisce il tempo e inserendo la ripetitività che ferma e avvicina il tempo.

Dal suo racconto “Teneri bottoni”: «Alcuni di quelli stavano dove stavano anche tanti altri. Alcuni di quelli stavano dove non stava nessun altro. Uno di quelli stava dove non era mai stato nessun altro di quelli, di quello stesso tipo, e questa era una cosa molto importante per chiunque l'avesse davvero vista, per chiunque l'avesse davvero sentita. Sarebbe stato davvero scoraggiante vederne altri, di quelli». E così via per altre venti pagine…

Nadia Fusini, docente universitaria e una delle nostre più sensibili scrittrici dirà:
«Per tutti i suoi devoti lettori, se c'è qualcosa di sovrumano, di divino in Gertrude Stein è la sua distanza dalle passioni umane più comuni, tra cui quella di comunicare. Noi devoti leggiamo la pagina steiniana avendo accettato la sospensione del significato, e navighiamo a vista in una dimensione di assenza di senso, avendo oltrepassato le colonne d'Ercole del bisogno di assegnare a ogni significante il suo significato, verso il mare aperto di un'avventura in cui la lingua è una sorpresa. In questo senso Gertrude è "sacra". E noi la veneriamo».

La Stein, proprio come del resto tanti altri spiriti geniali, ebbe molto a faticare per essere anche solo compresa. Lei vedeva e sentiva cose che gli altri non erano ancora in grado di cogliere.
Per la Stein lo scrittore doveva evitare in ogni modo di far più bella la realtà. La realtà era la realtà, punto e basta.  E allora:
“Una rosa è una rosa, è una rosa, è una rosa, e non è il simbolo della passione o dell’amore, e il mare non è evasione e sentimento di libertà. Il mare è il mare, una motocicletta è una motocicletta. La prosa deve essere depurata da ogni clichè, da ogni luogo comune”.

Ed ecco che così la Stein muove il “primo passo nella narrativa del ventesimo secolo” influenzando con la sua forza, la sua personalità e la sua visione del mondo tutto il mondo letterario del suo tempo. Quindi non solo sembra possibile intervenire sul nostro destino, sulla nostra “natura”, per modificarne i condizionamenti, ma anche, per chi riesce a guardare oltre se stesso, intervenire sul tempo stesso in cui viviamo, operando per la creazione e trasformazione della realtà che ci circonda.
Gertrude Stein, a differenza della maggior parte degli artisti di ogni epoca, non si è limitata ad occuparsi della “sua” arte. Ma “sentiva” l’Arte, la fiutava, la cercava come un cane da tartufi. E amava l’Arte, di un amore disinteressato.
“Basta un vestito semplice e robusto, lo stesso nella vita, per poter dedicare tutta l’attenzione all’Arte”.

Ma amare l’arte voleva dire cercare di coglierne il processo creativo, di arrivare alla sorgente, all’origine dell’opera, di conoscere profondamente l’autore. E così il suo salotto parigino di Rue de Fleurus è sempre aperto a tutti gli artisti e, come diceva lei stessa, a tutti coloro “che amano e parlano di arte moderna”.
Ed ecco passare e fermarsi in quel salotto, coperto di quadri di tutti i pittori contemporanei: Picasso, Matisse, Hemingway, Scott Fitzgerald, Cocteau, il poeta Apollinaire e molti altri anche sconosciuti. Per tutti il salotto di Gertrude Stein era il punto di incontro, di scambio dell’arte moderna.
Lei respirava e faceva respirare a tutti lo spirito del tempo, e avrebbe influito in maniera determinante su tutta l’Arte ed il Pensiero a venire. Dal Futurismo fino ai giorni nostri.

A questo punto potremmo dire che un personaggio così poco attraente a livello estetico stava giocando le sue carte a livello intellettuale, per ottenere l’interesse degli altri e del mondo.
Ma anche in questo campo più propriamente personale, Gertrude ci sorprende per la sua assoluta libertà dal giudizio degli altri. Si innamora di una ragazza  molto più giovane di lei, e le chiede di sposarla. Convivranno per tutta la vita, facendo accettare al mondo benpensante le arditezze e bizzarrie normalmente concesse al genere maschile.
Scriverà, tra l’altro, “Autobiografia di Alice Toklas”, tradotta in italiano da Cesare Pavese. Si tratta di una autobiografia di se stessa in conto terzi, di una autobiografia dello spirito di un tempo e di un gruppo di artisti ed intellettuali che hanno cambiato, grazie in particolare a lei, la cultura del Novecento.

Ma possibile, quindi, che ci si trovi di fronte ad una persona veramente straordinaria che ha contribuito a cambiare il mondo? Eppure le sue opere letterarie sono pressoché sconosciute, il suo stesso nome è noto a pochi addetti, interessati alla cultura e all’arte.
Come si può spiegare questo strano fenomeno, questo mistero?
Azzardiamo una spiegazione: Gertrude Stein ha raccolto la sfida della natura, che sembrava volerla brutta ed insignificante, ed ha costruito invece una vera opera d’arte, fatta di costante ed instancabile lavoro creativo: lei stessa e la sua vita.

Gertrude, poco prima di morire, saluterà il mondo dicendo: “Qual è la domanda? Qual è la risposta?”



domenica 4 settembre 2011

Santa Libera e il mito della collina

Santa Libera. Uno spazio, una casa, una terra. La stessa terra e il paesaggio di Cesare Pavese con le sue colline. Le Langhe.


Santa Libera. Uno spazio nascosto dal mondo delle cose degli uomini. Una sensazione di senza tempo. Una sensazione di “altrove”. Un mondo che sembra arrestarsi dietro quelle colline, immobili, le stesse che furono nelle parole e negli occhi di Pavese: la sua terra, le sue vigne, i suoi falò.

Noi. Arriviamo ogni volta da te, come quando si ritorna, da grandi, nella casa dell’infanzia, delle origini. Per ritrovare in noi quello sguardo sull’”aperto” che in città si chiude e si spegne.
Santa Libera. Cerchiamo di immergerci nella tua saggezza, nella tua calma, nei tuoi ritmi, nella tua sacralità. Cerchiamo ogni volta di sapere da te un po’ di più su di noi, osservandoti vivere, come si osserva una madre, vivendo con te e ritrovando in te i nostri primi sogni, le nostre prime immagini, le nostre prime parole, che sanno e parlano di assoluto. Ritroviamo l’essere umano che c’è in noi a volte un po’ smarrito. Ritroviamo la natura originaria delle cose, il senso dello spazio e del tempo.

Santa Libera, stai col tuo sguardo muto, nella storia e nella memoria del mondo, ad osservare il cammino del sole, che scalda le vigne e le lucertole, che penetra nei boschi e nelle tane.
Al buio parli agli uccelli della notte, alla luce disegni forme mitiche nel cielo, giochi al teatro con le ombre degli alberi, mossi dai sospiri del vento ed illuminati dalla luce ipnotizzata del fuoco.

Santa Libera. Momenti indimenticabili di una vita che sembrava perduta per sempre.

«L'accordo con il tutto rende ogni creatura ciò che essa è [...]. E così, di nuovo, ogni creatura è solo un suono, una sfumatura di una grande armonia». - W. Goethe -