giovedì 6 ottobre 2011

Edith Piaf - Io non rimpiango nulla

La Natura ha proprio una fantasia ed una creatività straordinarie. Si diverte a sorprenderci e a contraddirci continuamente. Forse con l’intento di costringerci a pensare, riflettere, non dare mai nulla per scontato, ovvio, prevedibile.
E questo succede a noi, semplici spettatori della vita, che guardiamo gli accadimenti della storia come se fossimo al cinema. Animandoci ed appassionandoci delle varie vicende che passano sullo schermo.
Ma cosa succede veramente ai protagonisti di questo film che la Natura ha gettato in scena e che devono vivere e subire le volontà di questo a volte un po’ folle drammaturgo?

Ecco uno di questi protagonisti della Storia. Da buoni spettatori nascondiamoci nel buio della sala e osserviamo in silenzio.
Un mucchietto di ossa e di carne che arriva a malapena al metro e mezzo, due grandi occhi febbrili, la fronte bombata, una voce che si alza cristallina e vigorosa e sembra debba da un momento all’altro schiantare quel fisico più ridicolo che fragile.
Edith Piaf. Figlia di una cantante di strada alcolizzata e tossicomane e di un saltimbanco, cresciuta in un bordello, tubercolotica e afflitta da una malattia che rischia di trasformarsi in cecità perenne, ragazza-madre dalla vita sessuale promiscua e disordinata, amante di magnaccia da quattro soldi, questa ragazzina-passerotto a vent’anni ne dimostra quindici e diviene famosa dalla sera alla mattina.
Quando morì, ne aveva quarantasette ed era un rudere piegato dall’artrosi, rovinato dalla morfina e dall’alcol, eppure appena due anni prima aveva tenuto il suo ultimo, trionfale concerto, con la canzone “Je ne regrette rien”.

Je ne regrette rien era stato il motivo con il quale aveva salutato il pubblico in delirio dell’Olympia di Parigi: non rimpiango nulla, me ne frego del passato, ricomincio da zero.
Un epitaffio, più che una canzone.
Il regista Natura ha voluto giocare con lei un gioco molto duro, ma anche molto affascinante, attraverso un viaggio, una storia che ogni giorno riserva una sorpresa, tragica o gioiosa, ma sempre estrema.
Edith Piaf, all’anagrafe Edith Gassion, nasce il 19 dicembre del 1915, sui gradini di un portone, cresce così nelle strade di Belville ignorata dalla madre, troppo impegnata a strappare brandelli di vita dalle occasioni che il marciapiede le propone giorno dopo giorno.
Quando il padre torna dal fronte spedisce la piccola Edith in un bordello in Normandia gestito dalla nonna paterna.
Nel 1922 il padre torna a riprendersela e anziché iscriverla a scuola la porta con sé per le strade di Parigi  dove Edith canta e balla e passa con un cappello  in mano a chiedere i soldi al pubblico occasionale.

Questa è la vita della giovane Edith che gira per la Francia in compagnia del padre e della sorellastra: sono anni impregnati di storie che mescolano girovaghi, letti sfatti, notti all’addiaccio e bordelli. La vita di Edith e la sua carriera potrebbero finire da un giorno all’altro, per una rissa, un regolamento di conti o l’intervento della polizia.
A 18 anni ha una figlia, ma la bimba muore a causa di una meningite a soli 2 anni.
Edith ha 20 anni ed è già stata piuttosto impegnata dalla mente creativa del suo regista, quando c’è un cambio improvviso di scena. Incontra Louis Lepléè, proprietario di un piccolo locale, “Le Gerny”, dove si faceva cabaret e nel quale ha il suo debutto.
Leplée, oltre a raccoglierla dalla strada ed ad offrirle un primo pasto caldo, le trova anche il nome che la renderà celebre: Edith Piaf, che in dialetto francese significa passerotto, e le farà indossare per la prima volta l’abito che diventerà la sua seconda pelle: “le petit robe noir”, dalla quale non si separerà mai.
Edith canta l’universo degli umili, di storie meste e sconsolate tese ad infrangere troppo facili sogni, cantate con una voce che trasmette il mondo dell’umanità quotidiana con il suo sconfinato straziante dolore. Molti i personaggi famosi che accorrono per ascoltare la sua voce.
Nel febbraio del 1936, all’epoca del Fronte popolare, delle ferie pagate e delle prime vacanze di massa, Edith, al gala del Circo Medrano, ottiene il suo primo grande successo di pubblico. Si esibisce con Mistinguette, Fernandel, Maurice Chevalier.
Forse siamo finalmente all’inizio di una scena rosa, di una rivincita sul passato. Ma solo due mesi dopo, il suo protettore artistico, Louis Leplée, viene abbattuto con un colpo di pistola alla tempia.
Perché il mondo nel quale la Piaf vive è questo, un demi-monde ai margini del mondo normale, dove si campa con poco e si ammazza per ancor meno, ripicche, soldi, gelosie, artisti più o meno falliti, papponi e puttane, ladri e ubriaconi, marinai e legionari in licenza.
E lei ritorna nel buio di quel mondo, mentre sullo sfondo della scena le nuvole nere della guerra avanzano paurosamente.
Ma ecco entrare in scena un nuovo personaggio, il suo nuovo protettore artistico, che questa volta è anche il suo amante. Si chiama Raymond Asso, ed è lui a trasformare la Piaf da cantante in icona, costruendole canzoni su misura, rivedendone il look, facendone un’interprete assoluta dell’anima umana.

«Guardate questo piccolo essere le cui mani sono quelle della lucertola delle pietre. Guardate la sua fronte di Bonaparte, i suoi occhi di cieca che hanno ritrovato la vista. Come farà a far uscire dal suo petto minuto i grandi lamenti della notte? Ed ecco che canta, o meglio, come l’usignolo di aprile prova il suo canto d’amore. Avete ascoltato questo lavorio dell’usignolo? Soffre. Esita. Si schiarisce. Si strozza. Si lancia e cade. E d’improvviso, trova la sua strada. Canta. Sconvolge».
Così la descrive il già famoso poeta e drammaturgo Jean Cocteau.

La Piaf fu il volto e la voce di una certa Francia, un impasto di vita e di cultura, passioni intellettuali e sentimenti popolari, il gusto del cibo, del vino e del sesso di una nazione che affrontava la propria decadenza senza accorgersene, fiera di una grandezza che era invece già passata.
Il 22 giugno 1940, la Francia firma l’armistizio con il quale la Germania occupa la parte settentrionale del paese e l’intera linea costiera Atlantica.
La Seconda guerra mondiale, l’invasione tedesca, la sconfitta. Il Paese è diviso in due, il collaborazionismo e la fine dei sogni da un lato, l’aggrapparsi all’estrema illusione di una orgogliosa resurrezione dall’altro.
Gli anni della guerra furono gli anni della Piaf., Edith continua a vivere e a lavorare a Parigi, film, gala per i prigionieri, per la Croce rossa, music-hall e cabaret per gli ufficiali tedeschi e la buona borghesia cittadina.
E’ tradimento? Amore per la Germania o per Hitler? O è la vita, con i suoi compromessi, le sue debolezze, le attese, le speranze frustrate, la rabbia? 
Con queste domande nella nostra mente, andiamo avanti, da buoni spettatori, a partecipare alla scalata al successo, agli eventi e ai drammi che la realtà sembra non essere mai stanca di elargire a questa sua creatura. 
La voce della Francia, una nazione umiliata e offesa che nonostante tutto vuole andare avanti, è la sua voce. La voce di Edith Piaf. Che vuole lasciarsi il passato alle spalle per correre verso un futuro felice, del Paese e di lei stessa.
Nel 1948 conosce il famoso pugile Marcel Cerdan, francese di Algeria, campione del mondo dei pesi medi. Si innamorano. Sono finalmente felici e vivono l’uno per l’altro. Un giorno, mentre il pugile sta volando da lei per raggiungerla negli Stati Uniti, l’aereo cade e Cerdan muore.
La felicità dura poco.
Grande coup de thèatre del regista, anche se un po’ melodrammatico, al punto da sembrare non vero. Invece è vero, è vita vera, soprattutto per Edith.

Edith è distrutta dal dolore.
Inizia a bere e a fare uso di droghe.
Ci si dimentica sempre delle situazioni, condizioni e momenti positivi quando avviene un evento negativo e tragico. Non si riesce a fare un bilancio, ci si sente solo vuoti e disgraziati. Si vede solo nero e nera la realtà.
Negli anni successivi Edith Piaf ebbe quattro incidenti d’auto, un tentativo di suicidio, cure disintossicanti, coma epatici, una crisi di follia, sette operazioni, broncopolmoniti, un edema polmonare ed alcuni svenimenti sul palcoscenico.
Ma anche un susseguirsi di storie sentimentali, brucianti e burrascose, la presenza di un uomo come una necessità per chi si era sempre sentita sola e aveva sempre temuto la solitudine.


L’elenco dei suoi amanti è interminabile e c’è spazio per tutti i ceti e, in fondo, tutte le età: l’ultimo, Theo Sarapo, avrebbe potuto essere suo figlio, ma ce ne furono molti che avrebbero potuto farle da padre.
La fine è vicina ma Edith  non si sottrae a nulla, continua a schiacciare l’acceleratore nella sua folle corsa sulla strada della vita. Non evita gli ostacoli, tira dritto buttando giù dolori e amori, lasciandosi travolgere, cadendo e rialzandosi, aggrappata con tutta la forza che le rimane al microfono, perché la sua voce come in un incantesimo si liberi una volta di più.
Ed eccola entrare per l’ultima volta all’Olympia: non aveva ancora compiuto 48 anni, ne dimostrava 70. I capelli radi, il volto gonfio, le mani deformate dall’artrite, il passo incerto, lo sguardo assente, la voce spezzata. Sul palcoscenico immobile, quasi una statua di cera dentro l’abitino nero.
Morirà poco dopo , l’11 ottobre 1963.
Jean Cocteau prepara alla radio l’elogio funebre della sua grande amica che dice: “Quando canta Edith, arrotolando il cuore in gola, come se si strappasse l’anima dal petto, l’inferno  sale in paradiso”. Ma, mentre sta lavorando a questo discorso, muore. Lo stesso giorno di Edith.
L’ultima e assurda immagine di una storia creata da un drammaturgo più geniale di Shakespeare.

Si riaccendono le luci di sala. Lo spettacolo è finito. Noi spettatori restiamo come intontiti da tanta vita con lo sguardo su quelle immagini, su quella figura minuta. Forse ci domandiamo se è meglio una vita così intensa e breve, o una vita più calma, ordinaria, ma più lunga e tranquilla. Essere o non essere. Domanda interessante quanto inutile. Come se potessimo deciderlo noi. E’ meglio restare seduti a sognare e cantare a bassa voce che in fondo….. “La vie (est) en rose”.

Edith Piaf. Cantare per non morire, ma anche cantare fino a morire.
Si sa…. se a un passerotto gli togli la voce...