“E’ spaventosa, la vita”.
Diceva proprio così. Ed è celebre ormai come affermazione. Qualcuno la conosce,
la riconosce e la attribuisce al suo reale proprietario: Paul Cézanne.
(Paul Cézanne) |
Perché, come si colloca
nella sua vita una frase di questo tipo, che importanza ha, visto che Cézanne
la ripete spesso alle poche persone che lo circondano?
Egli ha sempre vissuto nella
sua pittura, nella ricerca costante che l’ha portato sino a dubitare della
pittura stessa. Un tormento vero e proprio, la ricerca del compimento della sua
opera: dipingere il mondo intero, l’intera esistenza, la vita. E nello stesso
tempo l’avere coscienza che la vita, la realtà quotidiana ti porta via.
Lo sapeva, lo sentiva che la
vita era piena di paure, di debolezze, che la sua vita era
piena di paure e debolezze. La sua, come quella di chiunque altro, ma lui ha
dipinto. Ha mostrato a chiunque abbia voglia di vedere un suo quadro, il mondo
intero, l’intera esistenza.
È spaventosa, perché non ti
lascia la possibilità di scegliere, perché ti lascia davanti a troppe scelte e
non puoi mai sapere qual è quella giusta. Perché, la vita, ti pone davanti
all’esistenza, che per una persona sola, è qualcosa di insormontabile.
E poi c’è quella virgola che
separa un po’ le paure, l’esser spaventosa, e pone tutto con un certo distacco.
È in quella virgola che si è collocato Cézanne, tra lo spavento e la vita: sul
crinale.
Quella virgola è come se fosse un suo dipinto sospeso tra tutti i
timori dell’artista e la sua stessa vita, fatta d’arte. E infine c’è la vita, quella
che tutti siamo costretti a vivere, quella che ci pone davanti alle paure e
agli spaventi, davanti all’esistenza. Ed
è proprio la vita ad essere l’oggetto dell’arte. L’oggetto di quello che Cézanne
ha cercato di svelare alle persone.
La vita dovrebbe essere un accumularsi di strati di nuove
visioni, di nuovi dettagli, di nuove sensazioni, che ogni oggetto, ogni momento
della nostra vita ci sta fornendo.
L’inquietudine di Cézanne trova causa in questa costante insistenza
a ricercare, a riprovare, a riguardare, ad andare dentro le cose e non essere
mai sicuro di averne trovato l’essenza ultima.
Il suo assoluto bisogno di restare su quelle cose con cui ha
intrecciato questa relazione così stretta, che ogni volta lo porta sempre più
in fondo. E così anche la sua vita, priva di fatti, eventi, cambiamenti
significativi, esprimono il suo bisogno di seguire e di decidere cosa è
rilevante per lui, e non cosa è meglio e giusto e più piacevole. Ma il suo
stare in questa dimensione produceva in lui la più forte sensazione possibile
ad un essere umano.
La grande
coscienza morale di Cézanne lo portava a cogliere la necessità di tener dentro
e di abbracciare ogni volta tutto, che era fatica e infinita pazienza.
Non aveva
fretta. Attendeva per ore, nascosto come una lucertola, che la luce cambiasse
d'inclinazione sulle rocce della montagna, spiava i mutamenti lenti e solenni
della natura. Aveva visto come l'acqua corrode le pietre nel greto del fiume,
come il vento lima la roccia soffiando nei crepacci, come gli alberi si piegano
e resistono nel turbine di un uragano...
Col suo modo di dipingere voleva
imitare gli stessi procedimenti della natura.
La parzialità,
lo esasperava. Come lo esasperava la miseria di una cultura sempre più
esclusivamente attenta agli estri sentimentali, psicologici ed emotivi del
singolo.
Per lui la funzione dell’artista era di
essere un punto di riferimento per la vita di tutti.
Col passare
degli anni, la pittura diventava un vero atto morale. Che non si basava su
intuizioni improvvise. Avanzava bensì a passi lenti e faticosi, con continui
tentativi, ripetute prove.
La sua coscienza
costruttiva tentava di arginare ogni volta l’erompere del sentimento naturale
ed istintivo. Sentire che c’è
un oltre (oltre il nostro raggiungibile) e sentire che si resta al di qua.
Questa era la sua inquietudine. La mai risolta e
risolvibile irrequietezza dello spirito si calmava dentro il vastissimo
ansimare della natura, che lui riusciva a cogliere, in questo ascoltare senza
pace.
30 anni passati
di fronte alle “cose” con l’ossessione della “réalisation”. Cioè il rendere
reale nella forma ciò che ci si dà in modo così frammentario, confuso,
evanescente.
La réalisation è l’esperienza che si spinge fino alla verità della
cosa.
Non si può né si
deve fallire di fronte al compito di rendere reale la vita inafferrabile.
E Cézanne
tornava sempre al suo lavoro. Alla sua Sainte-Victoire “indescrivibile con
tutte le sue migliaia di compiti” (per essere scoperta integralmente e resa
reale come insieme).
Lì si sedeva e dipingeva. Con l’ansia di
far presto prima che essa svanisse. Tutto muta e si trasforma. Solo il lavoro
resta. Il lavoro che deve cogliere il mutamento e l’evanescenza.
La Montaigne
Sainte-Victoire è come la metafora della vita. La sua realizzazione è coglierne
la verità.
(Cézanne - "Mont Sainte-Victoire vista da Les Lauves") |
L'arte di Cézanne nasce dal rapporto con la natura, meno
immediato di quello degli impressionisti, meno istintivo, più meditato e
profondo. Egli non può concepire la pittura al di fuori di questo rapporto;
tutta la sua opera non è che un dialogo con le cose, nature morte e paesaggi,
oggetti nei quali ha cercato di carpire un segreto attraverso ore di solitaria
contemplazione.
Nel mondo, naturale o umano, dei
quadri del Cézanne maturo non spira alcuna soggettività. Ci sono solo cose.
"Cézanne - scrive Merleau-Ponty - rivela la base di natura disumana su cui
l'uomo si colloca. Ecco perché i suoi personaggi sono strani e come visti da un
essere di un'altra specie. Il paesaggio è senza vento, l'acqua del lago di
Annecy senza movimento, gli oggetti gelati esitanti come all'origine della
terra. E' un mondo senza familiarità, in cui non ci si trova bene, che vieta
ogni effusione umana. Pittura disumana anche quando rappresenta un volto umano.
Cézanne diceva che un viso va dipinto come un oggetto. Per questo pittore una
sola emozione è possibile, il sentimento d'estraneità, e un solo lirismo:
quello dell'esistenza sempre ricominciata.”
Cézanne si dedica allo studio
preciso delle apparenze. Dilatava gli occhi: rinunciando alla sua
interpretazione ottica del mondo, lasciava che le cose penetrassero in lui, lo
invadessero. Ma il mondo che risulta poi dalla sua tela è un mondo da cui la
soggettività - le abitudini visive, gli aggiustamenti percettivi, e la tradizione
pittorica europea - pare esclusa, o, come direbbe Merleau-Ponty, messa tra
parentesi. Egli fa epoché della storia soggettiva della visione.
Racconta Bernard, suo allievo e
amico: “Un giorno, un pomeriggio di
mistral, in cui venivamo a fargli una sorpresa con il mio amico Xavier de
Magallon, credendo che non lavorasse, lo trovammo che batteva i piedi sulla
roccia, coi pugni stretti, e che piangeva come un bambino davanti alla sua tela
squarciata, portata via dal colpo di vento. E appena ci mettemmo a correre per
recuperarla, spinta nei cespugli della cava: “Lasciatela lì, lasciatela, gridò… Stavo per esprimermi, questa volta… era la
buona, era la buona… Ma non deve succedere. No. No... Lasciate stare",
Il grande paesaggio dove risplendeva la Sainte-Victoire al di sopra degli
avvallamenti bluastri, fresco, tenero e radioso, ingannava i cespugli dove lo
travolgeva il vento. Vedemmo, squarciati dalla burrasca, i lembi rossi della
tela, i marmi rossi, i pini, il monte adornato, il cielo intenso… Era, in confronto
alla natura stessa, un capolavoro che la eguagliava. Cézanne, con gli occhi
fuori dalle orbite, osservava con noi. Una collera incontenibile, pazzia, non
sapevamo cosa prevalesse. Si diresse verso il quadro, lo prese, lo lacerò, lo
gettò sulle rocce, lo squarciò a colpi di scarpa, lo calpestò. Quindi,
contrito, si accasciò, e mostrandoci il pugno come se fossimo responsabili:
“Andatevene, ma lasciatemi in pace…"
E, nascosti tra i pini, lo intendemmo
piangere più di un'ora come un bambino. Non voleva alzarsi più..."
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