sabato 13 aprile 2013

Elegie Duinesi - Un fievole alito verso l'Infinito


Una fredda mattina d’inverno, un uomo passeggia fuori, all’aperto, lungo le scogliere. Sta lì, nella solitudine piena, pura. D’improvviso avverte una misteriosa voce interiore, che si confonde col soffio delle acque e dei venti:

"Chi, s’io gridassi, mi udrebbe
dalle celesti gerarchie degli Angeli?
E se anche uno mi stringesse d’improvviso al suo cuore
perirei della sua troppo forte esistenza"
                                
(Rainer Maria Rilke)
Un uomo grida, grida il suo senso di piccolezza, davanti al mistero dell’esistenza universale. Un senso di terrore. La tragica scoperta della precarietà del mondo. Una profonda presa di coscienza della condizione umana, sospesa nel vuoto, l’apparire momentaneo di ogni cosa  terrena. La vita sembra impossibile.


L'uomo cerca, col suo grido, qualcuno, qualcosa di durevole presso cui poter stare. Prova con gli angeli, ma si accorge subito che non è possibile. Nessuno lo sentirà. Sono troppo lontani, troppo grandi e sono troppo forti.


L’angelo è bello, è il bello;
Ma "il bello non è che il principio del tremendo,
che noi ancora ammiriamo e sopportiamo, che quieto disdegna di annientarci".

Appena oltre il bello c’è una verità troppo grande per noi, una conoscenza terribile.

E così il grido si inghiotte e diventa un cupo singhiozzo. E allora, con chi possiamo trovare una vera, rassicurante comunione? 

"Gli angeli no, 
gli (altri) uomini neppure", ognuno preso dalla sua necessità di vivere.

Gli animali forse?
"Ma loro lo notano subito
che non siamo a nostro agio in questo mondo", un mondo che abbiamo trovato così, nel quale ad ogni cosa è già stato dato un significato. 
Ma come dire noi quelle cose?

"Ci resta forse un albero
là sul pendio, che ogni giorno rivediamo; 
ci resta la strada di ieri ed anche una viziata
abitudine, che stava bene con noi
e non se n’è andata e rimase"

Cosa ci resta ancora?

La notte, il tempo dell’attesa, con il suo “vento colmo di spazi”, che però alla fine ci corrode il volto. Tutti i grandi presagi che la notte evoca, promesse che potesse dirci, nel suo silenzio, qualcosa di vero e profondo su noi stessi. Tutte promesse deluse.

Forse gli amanti, nella notte, riescono ad avere la sensazione di una comunione totale, si illudono di potersi rifugiare l’uno nell’altro, ma in realtà, non fanno che impedirsi l’un l’altro la loro condizione umana. E alla fine, anche l’abbraccio più intimo, resta vuoto.

"Non lo sai ancora? Getta dalle tue braccia il vuoto"
Apri le braccia e aggiungi il tuo vuoto allo spazio del mondo, che sentirai ancora più vasto, ma anche più intimo. Ma che cosa lega noi al mondo?

"Sì, primavere ebbero bisogno di te
……… o forse, là dove passasti
ti si offriva un violino"


(Le "Elegie Duinesi")

Il mondo vuole forse che noi lo percepiamo. Ma tu non ci fai caso. Sei troppo “distratto dall’attesa” di qualcosa per te stesso. Un’amata, un amato. Ma se anche arrivasse ciò che attendi, dove vuoi ospitarlo? Tu non hai casa nel tuo intimo, per niente e nessuno. Non hai una vera interiorità, e i pensieri vanno e vengono, e non si fermano.

Esiste forse qualcuno che ha questa interiorità, questa casa?


Forse le amanti, ma quelle abbandonate, il loro amore non ricambiato, l’hanno tenuto intatto dentro il loro cuore. Loro sì, dall’antico dolore dell’amore, hanno imparato qualcosa sul senso autentico dell’esistenza.

E’ tempo che si impari, è urgente, perché decide della nostra vita. Ma quell’amore, diretto tutto verso una persona, deve potersi dirigere verso la realtà tutta.

"Voci, voci, odi mio cuore ………,
Ascolta come spira l’ininterrotto messaggio
che dal silenzio si forma"

Stare in ascolto, non chiusi in se stessi, ma aprirsi all’ascolto di ciò che nel silenzio parla. Nel silenzio le cose mute ci parlano. 
Quel silenzio dell’origine, che.."Sussurra a te, ora, di quei giovani morti"

Quelle morti che hanno per noi “un’apparenza di ingiustizia” perché non hanno potuto compiere le loro esistenze.

"Certo è strano non abitare più la terra
A rose e a cose che sono chiara promessa
non dare più il senso di umano futuro
Ed anche il proprio nome abbandonare
come un giocattolo infranto"

Ma noi viventi commettiamo l’errore di distinguere con un solco troppo profondo la vita dalla morte. I morti non sono meno reali dei vivi, questo gli angeli lo sanno bene. I non ancora nati, i viventi e gli antenati…

"L’eterna corrente trascina
attraverso entrambi i regni sempre con sé"

I morti non hanno bisogno di noi. Siamo noi ad aver bisogno di loro. Abbiamo bisogno dei misteri dell’esistenza. E poi, è nel dolore del lutto che la nostra anima cresce. Ma stare nella profondità del sentire non è facile da sopportare, perché significa rinuncia a quanto è terreno. La morte non è fine, ma una prodigiosa porta oltre la quale il movimento continua, in una serie infinita di metamorfosi.
Questo ci dice la voce dei giovani morti. Ma comprendere questo messaggio non basta. Bisogna attuarlo, qui, vivo tra i vivi. La morte non è fine. Dobbiamo trasferire la  potenza di questa visione in ogni nostro sentimento, pensiero, gesto e parola.
La parola poetica, il canto, che anche se è solo un fievole alito verso l’infinito, ci consola e ci aiuta.

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