giovedì 24 novembre 2011

Katherine Mansfield - Vivere...per vivere

Katheleen Beauchamp. Una ragazza di una famiglia benestante. Una vita tranquilla, cullata nel provincialismo culturale di Wellington, Nuova Zelanda, un Paese abbracciato dall’Oceano, in un lento e ritmato rincorrersi delle onde e del tempo. Una ragazza strana, diversa, introversa, al punto da far acconsentire la famiglia a lasciarla partire ancora adolescente per il mondo rischioso e tumultuoso di Londra.

Che cosa può portare una ragazza di buona famiglia, senza problemi materiali, a voler rompere con la comodità, la sicurezza del calore domestico per lanciarsi nel turbine della modernità, dell’imprevisto, dell’ignoto di una vita metropolitana?

Una profonda inquietudine esistenziale. Una sofferenza interiore che il sabbioso scivolare pacifico e monotono della vita di tutti i giorni non può che far crescere fino a diventare insopportabile….
Che cosa è la vita? E’ tutta qui la vita?

Forse questa inquietudine l’abbiamo avuta un po’ tutti, ma forse solo pochi l’hanno riconosciuta, ascoltata, accolta nella loro vita, al punto da farsi guidare da essa verso il proprio vero io, la propria vera vita, qualsiasi essa sia.

E così Katheleen Beauchamp si lascia essere se stessa. Lei non è più Katheleen Beauchamp, ma diventa Katherine Mansfield. Lei non è più una ragazza di buona famiglia, ma vive una vita che si potrebbe definire disordinata…… Disordinata, ovviamente, per chi ha una chiara e precisa idea dell’ordine. Pensate….una vita ordinata…..con ogni cosa al suo posto…la casa, la famiglia, il lavoro…

Katherine si trasferisce a Londra…..dove vive e viene vista come una donna ribelle.
Ma ribelle a cosa? A chi? Può essere ribelle chi solo cerca di scoprire se stesso? Katherine cercava solo la sua identità, la sua vera personalità……ma per far questo non poteva che provare….. a vivere.

Katherine rimane incinta a 20 anni e andrà ad abortire a Monaco. Si sposerà e divorzierà nello stesso giorno. Avrà amori maschili e femminili. Un altro matrimonio, inutile, una gravidanza, interrotta da un mobile che le cade addosso………
Ma tutto continua ad essere solo vita. Vita comune.

Ma perché devi essere ciò che gli altri pensano che tu sia, che sia giusto e normale essere?
Katherine cercava la vita, amava la natura, gli spazi, gli oggetti. Ma non amava le persone, verso cui volgeva il suo sguardo spietato. Convinta che nessuno potesse comprenderla veramente, amava dire: “Nessuno sa dove sei, nessuno ha la più vaga idea neppure di chi tu sia.”.

Ma dove può andare a finire tutta questa energia vitale, queste esperienze vissute, positive e negative, questa dura e forte visione del mondo? O rimane dentro a marcire l’anima o esce con forza, sublimata in un linguaggio artistico.

Nel 1911, a 23 anni, inizia ad apparire la sua prima serie di racconti. Influenzata dal grande Anton Cechov, incontriamo storie semplici, mondi semplici, in apparenza. Ma solo in apparenza. In realtà graffi ironici sul mondo, il suo vuoto, la sua superficialità. Situazioni apparentemente serene, mandate in frantumi da un semplice gesto, una frase rimasta a metà, un piccolo episodio, apparentemente insignificante.

Una straordinaria capacità di svelare le ambiguità della vita e dell’animo umano, di gettare una luce improvvisa sulle incrinature invisibili che covano sotto la banale superficie. Non ha bisogno di raccontarci i dettagli, le basta rivelare le crepe.
Quelle crepe che rimandano ai quadri di Lucio Fontana con i suoi famosi “tagli”.



Anche la Mansfield incide delle ferite nella tela superficiale di una storia e apre così nuovi spazi, possibili, ma ambigui, che gettano una luce oscura su un destino, sul senso di un’esistenza, su momenti ed aspetti di noi che forse non ci fa piacere conoscere ma per certo più autentici. Ci porta sull’orlo dell’abisso e ce lo spalanca davanti senza dire quello che contiene.

E noi rimaniamo lì, come davanti a questo dipinto, smarriti.

Katherine scrive piccole e brevi storie di piccole cose. Brevi dolci e tragiche storie, come la casa delle bambole, in cui la differenza sociale si unisce ad un momento intenso di solidarietà tra bambini, le piccole abissali incomprensioni tra due sposi in apparente sintonia, la violenza disperata e terribile del gesto di uccidere una mosca, una anziana signorina il cui unico piacere è una fetta di torta al miele che si dona ogni domenica.

Piccole storie fatte di piccole tragicità. Come la nostra vita. Come la sua vita, troppo breve, che non le darà il tempo (ma può essere questione di tempo?) per cogliere quella felicità intuita, raccontata, ma mai trovata.

La sua fama di scrittrice con il suo originale stile di vedere il mondo cresce e influenza la letteratura di quel tempo. Ma la sua sete di esserci nel mondo non si esaurisce. Proclama la libertà sessuale ed intellettuale dell’artista spremendo dalla vita ogni sua goccia.

"Ciò che tanto crudelmente ci inceppa è l’insulsissima dottrina secondo la quale l’amore è l’unica cosa importante a questo mondo: dottrina che di generazione in generazione viene piantata e ribadita nel cervello della donna. Dobbiamo sbarazzarci di questa fissazione: e allora, allora verrà veramente la possibilità di vivere la nostra vita"
                                                                                                      
Già. Una costante lotta per vivere la vita. Ma progressivamente alla dinamica inquietudine si aggiunge il bisogno di cogliere il senso della vita in quanto tale. Ma per vivere la vita bisogna osservarla, studiarla, capirla, pensarla, anche attraverso altre vite, altre visioni.

“Dov’è ora il mio ideale, il mio concetto della vita? Sto andando verso una visione più ampia: un po’ di Oscar Wilde, e poi Ibsen, Tolstoj, Bernard Shaw, D’Annunzio. Per intessere il complesso arazzo della propria vita, è bene prendere fili da parecchie belle matasse e comporli in un disegno armonioso. Indipendenza, decisione, fermezza di propositi, chiarezza mentale: ecco le cose indispensabili. Ancora e sempre, volontà: capire che l’Arte è assolutamente sviluppo della propria personalità”.
Katherine Mansfield si ammala di tubercolosi.  Potremmo dire, armati di buon senso, che la sua visione del mondo, così amara e così piena di nostalgia, fosse determinata dalla sua malattia. Diciamolo, se vogliamo sentirci più tranquilli e soprattutto più leggeri.

Ma Katherine ci smentisce subito:
"La vita è un mistero. Io debbo darmi tutta al mio lavoro. Debbo trasformare il mio supplizio in qualche cosa, trasfigurarlo. “Il dolore sarà mutato in gioia” e’ uno smarrirsi più completamente, un amare più profondamente, un sentirsi parte della vita, non uno straniarsene. Oh, vita! Accoglimi… rendimi degna… insegnami. Scrivo. Guardo in alto. Nel giardino le foglie stormiscono, il cielo è pallido, mi sorprendo a piangere.  
E’ difficile… è difficile fare una buona morte".

Katherine Mansfield. Un’artista perduta tra terra e cielo, rimane una voce, in attesa sulla soglia, senza tempo per cogliere la terra, senza tempo per arrivare fino al cielo.

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