Quante volte abbiamo sentito la
necessità di fermare il momento che stavamo vivendo? Quante volte abbiamo
pensato “vorrei imprimere nella memoria questa immagine per sempre”? E così facciamo una
fotografia.
Una fotografia. Che cos’è? La
cristallizzazione di un istante che non potrà più ripetersi. Facciamo fotografie
per rendere eterno l’attimo. Ma si fotografa quello che si vede o si fotografa
per poter realmente vedere?
Possiamo essere tutti di fronte ad una
stessa immagine della realtà e guardarla, ma non tutti vediamo la stessa cosa.
Forse qui sta la differenza tra chi fa fotografie da mettere in un album di
ricordi e chi, come l’artista, attraverso la fotografia vede qualcosa che a noi
è sfuggito, qualcosa che era sotto i nostri occhi ma noi non abbiamo colto.
Le foto si fanno con occhi, cuore,
testa. Ci vuole uno sguardo speciale, straordinario. Uno sguardo capace di
vedere ciò che a noi sfugge. Forse come questo.
Due occhi chiari, magnetici e penetranti, a cui vorremmo
sottrarci, forse consapevoli del loro potere di smascherare le illusioni che
abbiamo su noi stessi.
Uno sguardo impietoso ma, insieme, dolce, profondamente
comprensivo.
Lo sguardo di Diane Arbus.
Da quali lontananze giunge il suo
sguardo? Come è riuscita a penetrare la realtà apparente, squarciandone il
velo?
A chi le chiese il perchè si fosse dedicata seriamente alla fotografia solo a partire dai suoi 38 anni, Diane rispose, con un sarcasmo cristallino: "Perchè una donna passa la prima parte della sua vita a cercare un marito, a imparare ad essere una moglie e una madre, e a tentare di svolgere questi ruoli nel modo migliore. Non le resta il tempo di fare altro"
Le letture di Alice, Kafka, gli
acquarelli di Grosz portano la Arbus
alla fotografia di esistenze di una periferia invisibile. Diane ricerca i suoi
soggetti nei sobborghi, negli spettacoli di quart’ordine legati al travestimento,
scopre povertà e
miserie morali, ma soprattutto fa diventare il centro del proprio interesse i
cosiddetti “freaks”, colpita dallo scandaloso film di Tod Browning che rivedrà decine e decine
di volte.
Affascinata da questo mondo oscuro di
“meraviglie della natura”, comincia a frequentare Coney Island, un quartiere di
Brooklyn conosciuto per i suoi luna park, saloon, alberghi e casinò. E’ qui che
Diane va alla ricerca dei suoi soggetti. Ciò che rende il suo lavoro fantastico
e unico è la mancanza totale di premeditazione, ma solo ricerca istintiva,
ossessiva.
Diane Arbus non
chiede ai suoi soggetti di modificare le loro posizioni, non chiede delle pose.
Diane pensa solo a mettere in centro il soggetto che deve essere la foto. Come nelle pellicole europee del neorealismo
dei primi anni cinquanta, in cui la realtà viene mostrata per quello che è:
nessun abbellimento, nessun intervento per migliorarla; la vita scorre senza
alcuna consolazione esterna.
"Io mi adatto alle cose malmesse. Non mi piace metter ordine alle cose. Se qualcosa non è a posto di fronte a me, io non la metto a posto. Mi metto a posto io"
Diane ridefinisce il confine tra
“normalità” e “devianza”, ghettizzazione ed accettazione. Cosa è normale? E
rispetto a quale criterio? Se in un campo di nudisti la fotografa rimane
vestita, chi è fuori luogo?
"Quelli che nascono mostri sono l'aristocrazia del
mondo dell'emarginazione... Quasi tutti attraversano la vita temendo le
esperienze traumatiche. I mostri sono nati insieme al loro trauma. Hanno
superato il loro esame nella vita, sono degli aristocratici”
L’occhio di Diane Arbus vede il vuoto
dietro il vuoto, il glaciale nulla dentro cui scorre la vita umana.
Nella foto del patriota coglie lo sguardo vacuo, l'espressione di un ragazzo a cui non è chiaro per chi o cosa stia manifestando. Coglie l'orrore della dottrina, del non pensiero, del condizionamento all'azione. Nonostante si
voglia continuare a credere che la Arbus sia vittima di una partecipazione
emotiva che la consumerà nell’anima, sta di fatto che, del suo lavoro, colpisce
proprio l’evidente esistenza di “un’empatia non sentimentale”: una forma di
reciproca accettazione, in virtù della quale la fotografa non mostra
compassione per i fotografati, che non la chiedono, perché non esprimono
disagio o sofferenza per il proprio esser “strani”. “Mi
pare di avere una specie d’istinto per la qualità delle cose. E’ qualcosa di
sottile e per me un po’ imbarazzante, ma credo davvero che ci siano cose che nessuno
vedrebbe se io non le fotografassi” [D.A.].
Decisa a dare al mondo immagini di una
realtà insolita, dolorosa e piena di significato, si concentra sulla vita dei
minorati.
E' affascinata dalla loro estrema innocenza, dall'assoluta mancanza di coscienza di sè, dall'essere completamente assorbiti da quello che fanno.
Diane Arbus diventa un punto di
riferimento per i giovani artisti dell’epoca, tiene seminari, lezioni, conferenze.
Riesce però a fatica a far convivere la sua ricerca pura, interiore, con il suo
esistere nel mondo, le relazioni, i progetti, gli impegni.
Non può più stare
sempre nell’altro mondo e forse, i costanti passaggi dall’uno all’altro sono
logoranti.
Lavora di giorno e di notte per le strade
insicure, come scudo la sua macchina fotografica. Mangia crudo per non perdere
tempo. E’ la corda di un arco sempre tesa a scoccare fotografie come dardi. Il
suo lavoro è il progetto della sua vita eppure viene minato dalle foto che le
hanno dato elogio immediato.
Che cosa è successo a Diane? All’inizio è
gratificata, ma poi le sembra di aver perso il controllo della situazione. Le immagini vivono a prescindere dalla
sua interazione con i soggetti. Ci sono le sue ossessioni, i suoi ideali, il
suo stupore di vivere, ma lei non c’è. E’ come se le fotografie le scivolassero
tra le dita, come sabbia. La sua carica creativa sembra arrestarsi e lei si
trova, all’improvviso, al di qua dello specchio.
Un’Alice orfana del suo magico
mondo.
E’ il buio della visionaria, dell’angelo
maledetto, è il fruscio dell’anima che, come una foglia autunnale, in un’afosa
giornata estiva, si stacca da un mondo in cui non trova più linfa vitale.
Al funerale di Diane poche persone. Tra queste il fratello
Howard, che per lei scrisse l’elogio funebre:
A Diane, morta per propria mano
Cara, io mi
domando se prima della fine
Hai mai
pensato a un gioco da bambini
Io so che lo
conosci e ci hai giocato
Che hai
corso lungo il muro di un giardino
Come fosse
un crinale di montagna
Erto sulla
nevosa oscurità che si perdeva
Da entrambi
i lati, in baratri profondi.
E quando
l’equilibrio ti è mancato
Hai saltato,
temendo di cadere e ti sei detta
Per un
istante solo: forse è così morire.
Era un’altra
vita. Tu te ne sei andata
E più non
giochi al gioco degli adulti
In
equilibrio sul crinale, al buio
Corri e non
guardi in basso
Né salti per
paura di cadere.
Forse Diane non è saltata giù dal crinale dell'esistenza. Forse ha semplicemente corso a perdifiato nella vita, incurante o immemore del precipizio.
Forse è giunta in un luogo non luogo,
davanti a un volto senza volto, qualcosa che non poteva più raccontare con la
sua macchina fotografica.
(Tratto da "Incontri Straordinari", progetto realizzato dal gruppo di ricerca dell'Associazione Artistico-Culturale Aletheia)
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