“Il
bello è lo splendore del vero”, dice Platone. Diremmo appunto che è una “bella”
immagine. Profonda. L’unico problema è che se volessimo restare un po’ su
questa affermazione, cominceremmo a porci tutta una serie di domande. Cos’è il
bello? Cos’è il vero? Domande d’altronde che l’uomo si pone da sempre. E parole
che l’uomo usa da sempre, spesso con molta disinvoltura, senza forse domandarsi
che cosa con tali parole egli voglia veramente significare.
Che
cos’è infatti la bellezza?
Quando
noi troviamo, cogliamo qualcosa che ci appare veramente bello, la prima
reazione è quella di stupore, di meraviglia. Come se si aprissero sensazioni
nuove, ipotesi nuove, mondi nuovi, che nella normalità, ci sembravano
impossibili, inesistenti.
Ma
ci succede spesso? Dove e come potere incontrare la bellezza? E poi, la si
incontra? O bisogna prepararsi all’incontro con essa, come ad un incontro
d’amore?
Forse
non siamo più capaci di amare e così forse succede con la bellezza?
Non
siamo più capaci di coglierla?
Perché, forse, per
incontrare la bellezza bisogna saper vedere, ed essere capaci di quello
“sguardo”.
Di
uno “sguardo” che è fuori di noi, fuori dai nostri abituali criteri di
giudizio, fuori dal nostro quotidiano sentire, fuori dalla nostra natura
razionale. Solo allora, forse potremo incontrare la bellezza, quella bellezza
che è lo splendore del vero. Un incontro che può essere esteticamente
piacevole, ma a volte anche drammaticamente doloroso.
Ma
allora perché cerchiamo la bellezza? Cosa ci sta dietro questo bisogno di
bellezza?
“La Bellezza è l'unica cosa contro cui la forza del
tempo sia vana. Le filosofie si disgregano come la sabbia, le credenze si
succedono l'una sull'altra, ma ciò che è bello è una gioia per tutte le
stagioni, ed un possesso per tutta l'eternità”.
Non possono che essere parole di un
artista. Un artista per il quale la bellezza può vincere sul tempo, facendo
cogliere il senso dell’eternità. Chi poteva osare dire tanto e osare
agire così tanto?
Il Re della Vita: Oscar Wilde.
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(Oscar Wilde nel 1882) |
Il
Re della vita. Così Oscar Wilde si definisce in una lettera indirizzata al suo
giovane amante Alfred Douglas. Il Re della “propria” vita. Colui che ha cercato
di riempire di bellezza la propria vita. Nei gesti, nelle parole, nelle
relazioni e nell’Arte.
La vita di Oscar Wilde é una singolare parabola
morale e, insieme, un'opera di genio.
Wilde non seppe e non volle essere un grande
scrittore. La sua opera d’arte doveva essere soprattutto la sua vita. Oscar Wilde cercò di trasformare
ogni singolo istante in gioia, circondandosi di bellezza, senza sprecare un
solo attimo della sua esistenza.
Ma cos’è la bellezza per
Oscar Wilde? La sua era solo una
bellezza puramente estetica? No, la sua idea di bellezza, come Platone, era
sete di verità.
Ed è in nome di questa
verità che sostenne la necessità, per l’artista, di godere della libertà
assoluta, onde poter esprimere la sua arte in autentici capolavori. L’artista deve
essere libero da ogni legame con la società, libero dai sentimenti, da ogni
credo, poiché tutti questi obblighi limitano la sua capacità di ricerca del
bello e quindi del vero.
Ci giunge spontanea una
domanda: Ma se Oscar Wilde cercava, si attorniava e viveva così intensamente di
bellezza, doveva essere molto felice. La sua vita una gioiosa passeggiata.
Oscar Wilde ci dà una
chiara risposta attraverso la sua opera più importante, che diventerà eterna,
come forse quell’idea di bellezza, tanto cercata. Il ritratto di Dorian Gray.
Una vera e propria
celebrazione del culto della bellezza.
Protagonista del romanzo
è il giovane bellissimo Dorian Gray,
ossessionato dall'idea di invecchiare e di perdere la sua avvenenza. Il pittore
Basil Hallward gli fa un ritratto, e Dorian ottiene, grazie ad un sortilegio, che
ogni segno del tempo deturpi non lui ma il ritratto.
Nel romanzo si coglie l’intreccio delle diverse
personalità dei tre personaggi principali: Dorian Gray, dissoluto e amorale,
edonista che vive di apparenze e che arriverà al tragico epilogo nel disperato
tentativo di far coincidere l’arte con la vita; Lord Henry Wotton, l'amico, affascinante
dandy il cui spirito cinico e decadente richiama quello dello stesso Wilde e
Basil Hallward, il pittore, l'artista che plasma la Bellezza, invaghito di
Dorian, del quale cerca di portare alla luce la coscienza morale.
Oscar Wilde li descrisse così in una lettera ad un suo
amico Robert Ross:
“Basil è ciò che io credo di essere, Lord Henry ciò
che il mondo pensa di me e Dorian ciò che mi piacerebbe essere, forse, in
un’altra età”.
L’autore descrive un mondo aristocratico, dove tutto è
vuoto e superficiale. Il tema è estremamente attuale e viene efficacemente
riassunto in uno degli aforismi più noti del romanzo: “Oggi la gente conosce il prezzo
di tutto e il valore di nulla”
Nell'opera
appare in primo piano la condanna moralistica del vizio e la sua punizione, ma
il romanzo rappresenta con compiacimento anche il fascino e la forza attrattiva
del male, da intendersi come vita reale, coi suoi piaceri e le sue seduzioni.
Il rapporto tra Dorian Gray e il quadro che lo rappresenta è così l’ambiguo
rapporto, irrisolvibile per l’eroe decadente, tra il bene e il male, tra
l’immutabile perfezione dell’arte e la precarietà dell’esistenza.
Ne
"Il ritratto di Dorian Gray" si coglie che per Wilde la funzione
dell’artista è inventare, non fare cronaca. Il realismo della vita sciupa
continuamente l’arte; il piacere supremo in letteratura e nell’Arte è
realizzare ciò che non esiste, dove l’Arte reagisce e vince contro la cruda
brutalità del realismo puro e semplice.
Ma
le vie del piacere portano veramente alla felicità ?
Ed
eccoci ancora una volta di fronte ad una di quelle parole che riempiono le
nostre bocche e le nostre orecchie. Ma il cui vero significato sembra non
esistere. E soprattutto non esiste per quello che possiamo chiamare Artista.
Oscar
Wilde non cerca la felicità nella vita. Anzi egli non fa altro che evadere
dalla vita e dalla conseguente ricerca della felicità in essa, per rifugiarsi
in un’inerzia e in un totale disimpegno dal mondo. Oscar andava verso il
piacere come si va verso il dovere: “Per
un terribile dovere devo provare piacere.”
“Non la felicità! Soprattutto non
la felicità. Il piacere! Bisogna voler sempre il più tragico dei piaceri….”
Aveva
forse pensato, forse capito, che la felicità, quello stato costante, statico,
immobile di pace e serenità, non valeva la vita di un uomo?
Dopo
la condanna per omosessualità, scontata ai lavori forzati, Oscar Wilde
sprofondò nella più cupa e insopportabile delle sofferenze. Lo scrittore andò
gradualmente ma inesorabilmente incontro alla morte. Ma con che animo? Con che
profondità di pensiero? Sarebbe stato possibile tutto ciò, senza la sua vita
fatta di eccesso?
"Noi che viviamo in questo carcere, nella cui vita non esistono fatti ma dolore,
dobbiamo misurare il tempo con i palpiti della sofferenza, e il ricordo dei
momenti amari. Non abbiamo altro a cui pensare. La sofferenza è il nostro modo d'esistere, poiché è l'unico modo a
nostra disposizione per diventare consapevoli della vita; il ricordo di quanto
abbiamo sofferto nel passato ci è necessario come la garanzia, la testimonianza
della nostra identità.
Perchè il segreto della vita è la sofferenza. Essa è
ciò che si nasconde dietro ogni cosa. Quando incominciamo a vivere, il dolce è
così dolce e l’amaro così amaro, che inevitabilmente indirizziamo al piacere
tutti i nostri desideri, e tentiamo non soltanto di nutrirci del favo del miele
per un mese o due, ma di non toccare altro cibo per tutti i nostri anni,
ignorando che nel frattempo la nostra anima soffre la fame"
Parole
di un'anima. Sofferenza e bellezza. Inferno e Paradiso. Può esistere una senza
l’altra?
Sì,
ma solo in un'esistenza totalmente vuota.
La
sua vita è stata un po’ commedia, un po’ dramma, come quello di Dorian Gray, e
un po’ favola, come quelle che Oscar raccontava ai suoi due figli quando erano piccoli.
Una delle più belle è "L’usignolo e la rosa":
“Un
usignolo dal suo nido sentì un giovane studente esprimere la propria tristezza
poiché nel suo giardino non c’era nemmeno una rosa rossa, grazie alla quale avrebbe potuto ballare con la sua
innamorata, come lei stessa aveva detto. Si disperava poiché, sebbene avesse
letto tutto ciò che i saggi avevano scritto e conoscesse bene la filosofia, la
sua vita dipendeva da una rosa rossa.
L’usignolo
fece di tutto per cercare di aiutarlo, volò di giardino in giardino, ma non
trovò nessuna rosa rossa. Decise allora di sacrificarsi: si gettò sulla spina
di un rovo perforandosi il
cuore, così che il suo sangue potesse rendere rossa la rosa, e mentre la vita
abbandonava il suo corpo, cantò per l’ultima volta. Il
mattino seguente il giovane trovò sulla finestra la rosa rossa.
Appena la vide disse che era la rosa più rossa e bella
di tutto il mondo e tutto felice andò dal suo amore. Quando fu lì, porse la
rosa alla ragazza, ma lei, senza gratitudine, la rifiutò, e allora lui la gettò
via”.
Oscar
Wilde è stato un usignolo: amò la bellezza, amò l’amore, e continuò ad offrire
questa sua passione, anche a chi poteva non comprenderla o rifiutarla. Ed
allora colorò la sua vita di sangue, perché: "Dietro esistenze sublimi, c'è sempre qualcosa di tragico. Occorrono
grandi tribolazioni perché possa sbocciare un piccolissimo fiore".
Starà
ora a noi decidere cosa farne, di quella rosa rossa.
Passeri
che scorazzano giocherellando nei cortili dell’esistenza? O usignoli che amano
la vita fino a colorarla col loro sangue?
Oscar Wilde non ha mai avuto
dubbi. La bellezza è l’unico vero senso di una vita, anche se per coglierla si
deve spargere molto del proprio sangue.
Per diventare il Re della propria Vita.